domenica 23 settembre 2012

Porta Pia ieri ed oggi


ROMA

20 settembre 1870   -   20 settembre 2012


A Porta Pia, nel 1870, ci fu un’azione militare che, in violazione del Diritto Internazionale, comportò l’annessione forzata al Piemonte di ciò che restava dello Stato della Chiesa. 
Come disse Dostoevskij, Roma da capitale del mondo fu degradata a capitale di un’Italia unita meccanicamente e non spiritualmente.
Da allora ed ancor oggi, l’assalto di Porta Pia non segna soltanto la fine politica di uno stato antico, ma rappresenta soprattutto il trionfo dell’ideologia liberal-massonica su quanto poteva rappresentare di ostacolo all’imperialismo capitalista che allora muoveva i primi passi nelle politiche mondiali.
Nell’anniversario di quella impresa, di cui ancor oggi si nascondono particolari significativi, pubblichiamo una nota di un ”liberale” che, mal sopportando le ragioni del revisionismo ed incarnando fedelmente gli ideali di quell’azione, reagisce malamente nei confronti di chi controcelebra quel momento storico. A questa nota è allegata una nostra risposta.
Buona lettura.  


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Revisionismo anche su Porta Pia?


L’esposizione della bandiera del papa-re che aveva sventolato a Porta Pia nel 1870 e il solenne omaggio tributatogli lo scorso 2 settembre nella chiesa di San Lorenzo in Lucina a Roma appartengono probabilmente al folclore dei riti ricorrenti dell’aristocrazia nera della capitale, alle provocazioni eccentriche degli ultimi Colonna, Borghese, Torlonia. Ma diversi segnali, in queste settimane, offrono all’evento un contesto che lo sottrae alla semplice curiosità della cronaca minuta.
Innanzitutto, sorprende il linguaggio alla moda del principe Sforza Ruspoli che invoca l’abusatissima formula della "caduta delle ideologie" per legittimare la radicale revisione della figura di Pio IX, sconfitto dalle contingenze della storia, ma attualissimo profeta dei pericoli della modernità. Sarebbero gli stessi, in fondo, contro i quali oggi mette in guardia le coscienze (e i partiti, e le istituzioni dello stato italiano) Giovanni Paolo II. Vengono alla mente altri inquietanti revisionismi recenti.
Sullo sfondo, naturalmente, vi è la beatificazione di Pio IX che ha sollevato aperti dissensi all’interno dello stesso mondo cattolico, dalle comunità di base allo storico Pietro Scoppola, ai grandi teologi Schillebeeckx, Metz e Küng, al gesuita e storico Giacomo Martina.
Anche in ambito cattolico, sembrava da tempo acquisita la conclusione che, col senno di poi, la perdita del potere temporale fosse stata una grande liberazione per la Chiesa stessa e per la credibilità del suo magistero. Inoltre, le cannonate dei bersaglieri nel 1870 non erano certamente negli auspici degli eredi di Cavour, che fino all’ultimo avevano riproposto l’unica (laica e monarchica, individuata dal Cavour) via d’uscita ragionevole e reciprocamente vantaggiosa: "Libera Chiesa in libero Stato". Paradossalmente, le contingenze della storia nazionale hanno fatto sì che il laicismo sia stato garantito maggiormente dalla monarchia, piuttosto che dalla repubblica.
D’altra parte, negli anni precedenti, Pio IX aveva cancellato rapidamente e definitivamente l’immagine di "papa liberale" con cui era stato salutato nel 1846-47. Dopo la caduta della Repubblica Romana, aveva ripristinato la pena di morte, comminato carcere ed esilio a chi voleva concludere il Risorgimento. Nel 1864, con il "Sillabo degli errori principali del nostro tempo", aveva sancito la chiusura totale della Chiesa nei confronti del mondo moderno, condannando la libertà di pensiero, di fede e di ricerca scientifica; il socialismo e il liberalismo; il progresso; la separazione tra Stato e Chiesa; il divorzio ecc. Questo cupo arroccamento tradizionalista, rafforzato dalla proclamazione del dogma dell’infallibilità nel Concilio Vaticano I del 1870, aveva sconfessato le forze migliori del cattolicesimo in un momento storico cruciale non solo per l’Italia, compromettendone a lungo la possibilità di una partecipazione efficace e autorevole alle grandi trasformazioni di fine secolo. Per non parlare del Non expedit, che da un lato nega legittimità alle istituzioni e alla classe politica (in gran parte cattolica!) del nuovo Stato unitario e, dall’altro, mette in quarantena sino alla fine della prima guerra mondiale le prospettive di un possibile soggetto politico cattolico nel nostro Paese.
La revisione della figura di Pio IX avviene contemporaneamente allo sviluppo di un più vasto revisionismo che, con provenienze diverse e in modi spesso confusi, tende a distruggere il nostro Risorgimento. Così, le mitologie padane della Lega si scoprono in sorprendente sinergia, sul piano di un revisionismo storico improvvisato oltre che su quello delle alleanze elettorali contingenti, con le spinte dell’integralismo cattolico. Al Meeting di Rimini, si riscopre la figura del brigante meridionale per giocarla contro la pretesa "sacralità" del mito risorgimentale. In realtà, con ben maggiore attendibilità storiografica, le luci e le ombre dell’unificazione e della costruzione dello Stato nazionale sono state già ampiamente evidenziate da più generazioni di studiosi e da tempo anche nelle nostre scuole ci si è liberati dalla retorica agiografica che oggi si vorrebbe indicare come mito da sfatare; in particolare, sulle componenti sociali del brigantaggio si è soffermata a lungo proprio la storiografia di sinistra e laica (ovviamente senza nostalgie papaline se non addirittura sanfediste), quindi della parte politica contro cui si rivolgono i recenti revisionismi.
Quello che più colpisce nelle attuali polemiche, è la debolezza della voce dei laici e delle istituzioni, specie sul recente interventismo della Chiesa che, dalle discussioni parlamentari sulle biotecnologie al Gay Pride, moltiplica le invasioni di campo come mai in passato. La fine della Democrazia Cristiana sembra aver liberato il Vaticano da un’istanza unica e stabile di mediazione politica, mentre la nascita di Forza Italia contrabbanda agli italiani un preteso liberalismo-laicismo di massa inesistente.

Michele D’Elia
Presidente dell’Associazione dei liberali – Milano
Membro della Giunta nazionale della Federazione dei liberali


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La nostra risposta


E già! Revisionismo anche su Porta Pia



Non lo diciamo da “storici”, ma da osservatori della storia: per capire i fatti che travolsero e sconvolsero l’Italia nel “Risorgimento”, bisogna innanzitutto capire lo spirito di quel momento, ciò che veramente passava per la mente della gente comune e non solo per quella dei liberali, dei massoni nostrani e dei ministri inglesi. Insomma, per scoprire dove sta la verità occorre immergersi in quei momenti, sforzandosi di fare proprie le aspirazioni, i sentimenti, le  necessità e gli ideali delle popolazioni schiacciate tra il vecchio ed il nuovo, tra il certo e l’incerto, tra il papa ed il re, tra il sud ed il nord.
La presa di Porta Pia, così come la maggior parte delle vicende storiche che la precedettero, fu l’ennesimo danno agli interessi delle popolazioni per opera delle classi liberali emergenti in Italia e nello scacchiere internazionale. 
Per qualcuno è valida l’abusata metafora: “Gli italiani con l’unità caddero dalla padella nella brace”, come dire che se prima stavano male, poi, con l’unificazione imposta a colpi di cannone dai Savoia, stettero peggio.
Questa posizione viene abbracciata dalla maggior parte di coloro che affrontano in modo critico ma laicista il “Risorgimento”, comunque condannando i governi precedenti. Il valore aggiunto promosso dai Neoborbonici è rappresentato dagli Ideali legittimisti e della tradizione cattolica che, però, stridono con le tesi laiciste. Infatti, oltre che sulle discutibili finalità ed i brutali mezzi usati per vincere la guerra di conquista risorgimentale, i legittimisti di area neoborbonica puntano il dito sulle ideologie che generarono il “Risorgimento”, con tutte le aberranti conseguenze militari, sociali e politiche. Pertanto, nel  teorema appena enunciato scompare la “padella” e resta solo “la brace” del liberismo capitalistico del Nord pilotato dall’Inghilterra.
Nel brano in questione, il D’Elia dà per scontato l’infondatezza politica delle tesi legittimiste e, affermando che “paradossalmente (..) il laicismo sia stato garantito maggiormente dalla monarchia, piuttosto che dalla repubblica”, fa propri quei principi secondo i quali è giusto aggredire una nazione indipendente, depredarla delle sue ricchezze, mortificarne i valori etici e morali, sottometterla politicamente, stravolgerla culturalmente se guidata da un governo non liberale. Praticamente viene applicata la regola del “fine che giustifica i mezzi”, ma solo per pochi maledetti.
Il grande paradosso di costoro è che, per difendere le ideologie ed i principi che generarono il “Risorgimento” e, nel caso specifico, l’aggressione alla Chiesa, devono necessariamente abbracciare le tesi razziste e violente dei Savoia rinnegando, in questo modo, proprio quei principi posti alla base del vivere civile per i quali affermano di battersi ed arrivando addirittura a mortificare gli attuali enunciati repubblicani e costituzionali fondati sulla tolleranza, il rispetto e la libertà di opinione.
Sappiamo bene che i principi di libertà e democrazia per essere autentici devono essere validi ovunque ed in ogni circostanza. Essi non possono essere più o meno affievoliti a secondo dei contesti politici e sociali dove si sviluppano e dove se ne invoca l’applicazione. Se appariva contro il diritto internazionale aggredire, ad esempio, il piccolo Stato di San Marino, non si capisce per quale motivo non lo era anche per il piccolo Stato del Vaticano. Secondo un principio oggettivo, tra l’altro legato al Diritto internazionale, a decidere una sostanziale modifica dell’assetto interno dello Stato della Chiesa avrebbe dovuto essere il Governo di quello stato e non i cannoni di Vittorio Emanuele II, né, tanto meno, gli avi di D’Elia.
Non ci fu, quindi, solo una ragione politica ad indurre i Savoia ad invadere Roma, ma anche una ideologica. In buona sostanza questo il Principe Ruspoli ha interso rimarcare con la criticata iniziativa rievocativa da lui promossa, evidenziando la falsità di quei principi in nome dei quali i bersaglieri assaltarono e conquistarono Roma. Altro che “critica eccentrica degli ultimi Colonna, Borghese, Torlonia” ed altro che “cupo arroccamento tradizionalista”.
Difendere il “Risorgimento” e tutto quanto ne conseguì, compresa la Breccia di Porta Pia, significa accettare i principi aberranti che lo generarono, al di là delle apparenti buone intenzioni ostentate dalla storiografia ufficiale quale, ad esempio, l’unificazione del Paese. 
Di fronte a quanto i Savoia fecero in nome dell’Italia, andrebbe evidenziato che ben diversi erano i modi, la politica e gli assetti del progetto unitario pensato dai veri patrioti italiani. Un progetto condiviso dagli stati italici preunitari che, però, strideva enormemente e fatalmente con i diffusi interessi dell’Inghilterra nel Mediterraneo.
Interessi che vedevano in una tale probabile Italia unita un fastidioso potenziale concorrente su tutto quanto l’Inghilterra gestiva in termini di investimenti (canale di Suez) e domini (Sicilia, Maghreb, Grecia, Cipro ecc.). 
Oltre al Regno delle Due Sicilie, svincolato ed  isolato per scelta dagli intrighi economici e finanziari internazionali, il pericolo maggiore giungeva dal Vaticano, opposto per definizione dall’anglicano potere. 
Proviamo a guardare sotto questa ottica l’aggressione di Porta Pia e cerchiamo di scrutarne le vere ragioni ed i veri obiettivi, anche alla luce dell’attuale situazione mondiale.
Se questa esigenza di analisi dei revisionisti neoborbonici viene interpretata strumentalmente dai risorgimentalisti e confusa con le “mitologie padane della Lega” e “in sorprendente sinergia, sul piano di un revisionismo storico improvvisato oltre che su quello delle alleanze elettorali contingenti, con le spinte dell’integralismo cattolico”, è chiaro che ogni considerazione storica proveniente dai canali ufficiali della cultura è ancora fortemente condizionata da un’ideologia che impedisce di capire le verità di allora come quelle di adesso. Non si tratta di “distruggere il Risorgimento”, come afferma D’Elia, ma di analizzarlo, capirlo e, nel caso, condannarlo secondo i principi etici, culturali e morali della nostra civiltà.
L’apertura di D’Elia verso il brigantaggio anche in contrapposizione con la storiografia ufficiale non ci deve illudere: secondo costoro nemmeno i Briganti possono scalfire “la sacralità del ‘Rsorgimento’”.  Con l’affermazione: “si è liberati dalla retorica agiografica” e che “sulle componenti sociali del brigantaggio si è soffermata a lungo proprio la storiografia di sinistra e laica (ovviamente senza nostalgie papaline se non addirittura sanfediste), quindi della parte politica contro cui si rivolgono i recenti revisionismi”, il D’Elia svela il subdolo tentativo di appropriazione ideologica del brigantaggio. Questa recente operazione politico-culturale, messa in atto da alcuni settori dell’estrema sinistra e dell’anarchia, prende forma spogliando il ribellismo post unitario dalla originale veste politica che lo colloca inequivocabilmente tra i “reazionari” antiliberali ed antirisorgimentali in lotta contro la realizzazione di un colonialismo di sfruttamento nell’Italia meridionale. Questo significa uccidere per la seconda volta i Briganti e cioè chi, imbracciato il fucile ed imboccata la via dei monti, in nome del proprio re si difese contro un’altra civiltà venuta ad uccidere, depredare, saccheggiare e ad imporre il proprio governo e la propria ideologia. Paradossalmente è la stessa ideologia che adesso li vorrebbe come propri eroi. Finalizzata a questa appropriazione è il declassamento della reazione armata delle popolazioni meridionali da guerra di liberazione a fenomeno sociale: “il Risorgimento non può avere opposizione politica”. 
Nell’ultima affermazione del D’Elia c’è la risposta ai suoi perché. Infatti “la debolezza della voce dei laici e delle istituzioni” nella difesa del “Risorgimento” dipende proprio dal paradosso etico, dall’indifendibilità non solo delle modalità e dei mezzi utilizzati per “fare l’Italia”, ma anche dalle dinamiche politiche scese in campo che, alla luce dei recenti sviluppi, appaiono fallimentari, in molti casi aberranti e contro la stessa natura umana.  
Insomma, una manovra politico-culturale subdola dove, mentre da una parte cercano di salvaguardare alla meglio la mitologia risorgimentale, dall’altra cercano di appropriarsi di tutto quanto è ormai sfuggito dal controllo dei cattedratici: tra questi le ragioni del ribellismo popolare, più comunemente conosciuto con il nome di brigantaggio. 

Alessandro Romano