venerdì 14 settembre 2012

La fine dell'economia siciliana avvenne nel 1861





Il libero-scambismo lombardo-piemontese 
smantellò i fortilizi economici siciliani

di 
Tino Vittorio


Dal 1861 in poi l’annichilimento della cantieristica napoletana e palermitana a vantaggio di quella ligure. Il corso forzoso della lira permise alla Banca Nazionale di rastrellare le riserve d’oro del Sud.


Seguiva in lenta ascesa l’attività cantieristica ed armatoriale di Palermo (i Florio) e di Riposto (industriali vitivinicoli), eccezione positiva di un sistema portuale che fu il tallone d’Achille di questa struttura economica ben piantata ed orientata all’esportazione. E qui cade in taglio una lunga citazione da Denis Mack Smith: “Siracusa che avrebbe potuto essere uno dei migliori porti del Mediterraneo centrale, era in genere deserta…
La meravigliosa e profonda baia di Augusta… non vedeva quasi mai una nave … Pozzallo, il porto di Modica non aveva strada … A Sciacca, il porto più importante per il commercio del grano, non c’era ancoraggio se non molto al largo, nessun molo di carico e nemmeno una strada che scendesse al mare … Girgenti, il punto d’imbarco del minerale di zolfo, non era riuscita a costruire un frangiflutti sia pure con le rovine del tempio greco di Giove per cui le operazioni di carico erano estremamente lente e dispendiose, ed erano necessari quattrocento scaricatori anche per una piccola nave, mentre molti ergastolani lavoravano continuamente per mantenere libero il porto dei banchi di sabbia”. E così a Mazara, e così pure a Marsala con il porto ostruito di relitti per ragioni difensive dagli Spagnoli del sedicesimo secolo. E così anche a Catania, con il suo porto-gebbia, ribadito nella sua “nanità”, dal Paternò Biscari intorno al 1770, ad un secolo  dall’effusione lavica del 1669 che cambiò l’orografia urbana.
Per dirla con Roberto Martucci l’invenzione dell’Italia unita che assume la parabola politica di Ippolito Nievo quale cifra simbolica del processo unitario, il nostro è stato un “Risorgimento senza eroi”, di grande corruzione attraverso gli Inglesi che con la mediazione turca affogarono di piastre d’oro la Marina borbonica. Il Nievo all’alba del 5 marzo 1861 di ritorno da Palermo affondò con il piroscafo a vapore Ercole al largo di Napoli. 
Scomparvero altre ottanta persone assieme alle casse documentarie del “Rendiconto” amministrativo delle “imprese” dei Mille ( 1087: recita la storiografia puntigliosa) e dell’Esercito meridionale. Nulla fu più trovato. Emerse soltanto uno Stato che smantellò i fortilizi economici meridionali e siciliani, adottando nel 1861 il libero-scambismo dell’agricoltura lombardo-piemontese nefasto per quei primi germogli di industria protetta borbonica, imponendo il corso forzoso della lira che permise alla Banca Nazionale di rastrellare le riserve d’oro del Sud, più tasse e meno commesse industriali per il Sud, annichilimento della cantieristica napoletana e palermitana per quella ligure, e con la virata del protezionismo industriale del 1887 annientò le colture intensive (agrumi e viti) che avevano eroso per tutto l’Ottocento grande spazio alla cerealicoltura tradizionale. 
La grande depressione venticinquennale (1870-1895) completò l’opera di mortificazione dell’economia siciliana, per nulla confortata dallo Stato unitario. 
Ci siamo ancora dentro, dentro a questo sconforto, a quella disattenzione di ingratitudine. 
L’Italia siamo noi che popoliamo la lunga penisola meridionale. Il resto è alpigiano. Ma è il resto che comanda. Doveva avvenire il contrario: Ammiragli del Mediterraneo, la testa e il cuore a mare, i piedi sulle Alpi.

FONTE: Quotidiano di Sicilia - Articolo pubblicato il 09 gennaio 2010 
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