mercoledì 28 agosto 2013

Reggia del Carditello


ECCO COME RINASCE IL SITO BORBONICO

La piccola perla vanvitelliana riapre i cancelli alla sua naturale vocazione di azienda zootecnica...sogno o realtà?




San Tammaro - '‘Il Real Sito di Carditello torna al suo antico e nobile splendore. A distanza di 152 anni dall’inizio del suo lento, inesorabile e dannato declino, oggi, la piccola perla d’ispirazione vanvitelliana, voluta da Carlo III di Borbone, immersa nelle più verdi campagne di San Tammaro, in Terra di Lavoro, riapre i cancelli alla sua naturale vocazione di azienda zootecnica all’avanguardia con coltivazioni sostenibili, piantagioni d’eccellenza e allevamenti di razze equine di pregio, di ovini e bovini per la produzione di formaggi selezionati, tra cui la famigerata ‘mozzarella’. La fattoria borbonica ha così dato avvio ad una rigenerata forma di economia agricola attingendo a piene mani dalla sua antica, ma sempre viva, tradizione, portando finanze e occupazione, sviluppando un vigoroso indotto che sembrava oramai scomparso. Ma la piccola reggia di campagna offre ampi spazi anche alla cultura e all’alta formazione in materia di energie rinnovabili. Un’area dell’immensa struttura restaurata infatti, è riservata ai corsi di formazione post-universitari e allo studentato residente. Sono accolte anche le iniziative culturali che, gestite dalle associazioni del territorio, vanno dalla musica, al teatro, con particolare riguardo ai giovani talenti del Sud, alla presentazione di libri, ai convegni, ai seminari e ai dibattiti. Per volere della proprietà, è stato ripristinato anche il ‘Palio dell’Assunta’, voluto dai Borbone, nella giornata di Ferragosto. La chiesa annessa alla Real Tenuta inoltre, è aperta a tutti i fedeli in occasione delle funzioni domenicali e delle ricorrenze sacre. Nei periodi scolastici infine, è prevista l’attivazione di una fattoria didattica dedicata agli scolari della scuola primaria, secondaria e degli istituti superiori, con lo scopo di divulgare la conoscenza sulle attività agricole e di sensibilizzare le nuove generazioni circa la necessità della tutela ambientale del territorio. Il compito di vigilare le pertinenze interne ed esterne della struttura è stato attribuito a Tommaso Cestrone, il volontario che a lungo si è battuto per la salvaguardia del Sito Reale di Carditello.’ Bello vero? A chi non piacerebbe sfogliare le pagine di un giornale e leggere una simile notizia? Purtroppo per noi, è solo il frutto di una visione prospettica di difficile realizzazione visto che, allo stato attuale, la Real Tenuta di Carditello, è ancora alla deriva nelle torbide acque in cui è stata ricacciata da un secolo e mezzo di stupidità umana e da cui nessuno, nonostante il grande agitarsi di folle, sembra veramente intenzionato a condurre a sicuro riparo.

FONTE: Interno18.it

lunedì 26 agosto 2013

Ginosa: La Notte del Brigante




Sabato 31 agosto, nel centro storico di Ginosa (via Matrice) si svolgerà la prima "Notte del Brigante". Grazie al patrocinio del Comune di Ginosa, che ha inteso arricchire l'offerta del cartellone estivo con questo nuovo evento, le suggestive strade che convergono presso la Cinquecentesca Chiesa Madre di Ginosa, faranno da quinta ai racconti del brigantaggio post-unitario. Il programma della manifestazione principia nel pomeriggio, alle ore 18.00, con un'escursione letteraria in gravina guidata dall'esperto ambientalista Piero Di Canio. Alle 20:00 l'apertura degli stands gastronomici sarà accompagnata da una serie di proiezioni all'aperto sugli eventi salienti dei principali briganti presenti in queste terre: da Crocco a Ninco Nanco, dal Sergente Romano a Coppolone. E' proprio Coppolone, brigante ucciso in Ginosa nel 1865, sarà oggetto alle 21.00 degli spettacoli in costume dei Cantastorie. Per finire, alle ore 22.00, sarà la volta del concerto del noto cantautore e appassionato meridionalista Mimmo Cavallo, autore di famosi brani come Uh, Mammà e Siamo meridionali.

giovedì 22 agosto 2013

I custodi del Sangue di San Gennaro


Viola Sarnelli

All’interno del Duomo, in prima fila sulle panche di legno della cappella dedicata al santo patrono, fin dalle prime luci del mattino sono sedute le Parenti, donne che da secoli hanno assunto la funzione di sacerdotesse vicarie del culto di San Gennaro, tramandandosi di generazione in generazione un corpus di preghiere e litanie. 
Mentre le Parenti vanno avanti con i loro rituali arrivano gli alti prelati, vescovo in testa, e le autorità cittadine. Il cardinale prende l’ampolla con il sangue del santo, e dalla cappella si dirige lentamente verso l’altare maggiore del Duomo. Le navate sono strapiene, molta gente è rimasta fuori, sul sagrato. Nel mare di folla che il cardinale attraversa, accompagnato dagli applausi e dal sottofondo dell’organo, spiccano i pennacchi dei due carabinieri in alta uniforme che lo scortano. Dietro all’altare sono schierate due file di sacerdoti biancovestiti. Ai lati, i gonfaloni del comune e della provincia di Napoli.



Il vescovo sale finalmente sull’altare, la musica si ferma: “Fratelli e sorelle, vi do il grande annunzio”. Ai lati del vescovo: l’Abate della Cappella, che poco prima gli aveva consegnato ufficialmente l’ampolla; il Vicepresidente della Deputazione, che custodisce il tesoro e le reliquie del santo. È quest’ultimo a sventolare il fazzoletto bianco, non appena termina la frase del vescovo. È il segnale: partono gli applausi e molti altri fazzoletti cominciano a sventolare sopra la folla nel Duomo. Fuori, sulle scale del sagrato, c’è chi si lamenta per il ritardo: prima l’ampolla col sangue sciolto veniva esposta immancabilmente alle nove del mattino, accolta da un’orchestra sinfonica sistemata proprio lì, di fronte alle scale. Ora i negozi sono tutti chiusi. La città non festeggia più come prima, si lamenta una signora. Quando l’ampolla esce dalla chiesa viene salutata dai fuochi d’artificio, che disegnano linee di fumo bianco nel cielo limpido del mattino.
Ancora oggi, a Napoli, sono bene in vista i lasciti di una tradizione religiosa che mescola spiritualità popolare e cerimonie istituzionali, riti ortodossi e manifestazioni pagane, nonostante le classi alte, nel tempo, abbiano sempre mantenuto il controllo di questo importante patrimonio simbolico. Nel caso del culto di San Gennaro, la sua trasmissione è stata affidata nei secoli a un’istituzione sui generis. La Deputazione, l’organo che amministra le reliquie del santo e le opere d’arte a lui dedicate, non è eletta dal clero né dall’amministrazione comunale. È composta da membri di famiglie nobili napoletane che da cinque secoli si tramandano il compito di tutelare il prezioso tesoro. Dopo la fine della monarchia è stata pienamente riconosciuta dalla repubblica. Una parte del palazzo della Deputazione, adiacente al Duomo, ospita da qualche anno il Museo di San Gennaro, con esposizioni permanenti e temporanee delle opere e dei gioielli dedicati al santo, collezionati dal 1300 in poi.



Le famiglie nobiliari che si alternano nella Deputazione sono le stesse che hanno dominato la città per secoli, disseminandola dei segni del loro potere – dai palazzi ai parchi, dai monumenti alle strade, per non parlare della struttura urbana. Un passato che ancora oggi ha un’influenza tangibile sulla vita quotidiana dei napoletani. I membri della Deputazione sono persone che vivono nel presente, rifuggendo gratuiti anacronismi. Ma il loro presente è anche la naturale prosecuzione di un passato familiare dilatato, che abbraccia generazioni su generazioni, interrotto solo dalle stesse discontinuità che hanno segnato la storia cittadina: dalle invasioni ai terremoti, dalle epidemie alle riforme amministrative, dai Borbone ai Savoia passando – sempre – per la rivoluzione del 1799.
Riccardo Carafa d’Andria, vicepresidente della Deputazione della Real Cappella del Tesoro di San Gennaro.
Da cinquant’anni sono nella Deputazione, continuando in questo una tradizione di famiglia: uno dei cardinali Carafa riportò le ossa di San Gennaro da Montevergine a Napoli, un altro cardinale creò la cappella per contenerle sotto all’altare maggiore del Duomo. Io sono vicepresidente da due anni, ma sono stato uno dei deputati più giovani. Persi mio padre molto presto, e mi offrirono di prendere il suo posto quando andavo ancora all’università. Prima era un incarico meno impegnativo, oggi, con le nuove leggi, bisogna inquadrare il personale, mantenere i rapporti con la soprintendenza, è diventata quasi una società per azioni. La struttura rimane immutata da cinque secoli: i suoi dodici membri rispecchiano l’antica divisione della città in sedili o seggi. Due rappresentano il seggio del popolo, e vengono attribuiti per meriti personali. Attualmente sono il professor Federico Pepe, un illustre personaggio che è stato presidente del Banco di Napoli, e Vittorio Accardi, che ha scritto importanti saggi culturali ma anche cose molto simpatiche sul costume e la cucina napoletana. Gli altri dieci, invece, vengono scelti tra i discendenti delle famiglie nobili che risiedevano nei cinque sedili della città quando la Deputazione fu creata.
I sedili sono un’istituzione antichissima, prima diffusa in tutto il mondo, basti pensare che il processo di Gesù Cristo, nella Bibbia, si tiene nel tribunale di uno dei sedili di Gerusalemme. A Napoli in un primo momento erano sette, poi sei: cinque retti dai nobili e uno dal popolo. Avevano giurisdizione sulle vicende di quartiere, con tanto di tribunale: regolavano l’esazione delle tasse, la manutenzione delle strade. Anche il culto di San Gennaro seguiva questa logica, per cui nella Deputazione c’erano due rappresentanti per ogni sedile, e a turno ogni anno un sedile provvedeva ad amministrare la cappella, alla manutenzione delle opere e all’arricchimento del patrimonio.



Quando il re tornò da Palermo, dopo la rivoluzione del 1799, abolì i sedili dando una struttura più centralizzata per evitare nuovi problemi. Anche per la gestione del Tesoro il re disse: “Provvederò io personalmente a tutto”. Si proclamò presidente della Deputazione, e da quel giorno si parlò di Real Deputazione e di Real Cappella del Tesoro. Successivamente, Murat decise che il rappresentante della città – sindaco, podestà o quello che è – sarebbe diventato di volta in volta il presidente, trasformando l’incarico in una funzione onoraria, com’è ancora oggi.
I deputati vengono riconfermati ogni anno quasi automaticamente, ma di recente ne è venuto a mancare uno tra i nobili, così bisognerà sceglierne uno nuovo. In teoria sono parecchie le famiglie che avrebbero titolo, ma negli ultimi anni qualcuna si è estinta, molte si sono trasferite, e in altri casi bisogna fare i conti con una nobiltà napoletana piuttosto vaga: molto facile che qualcuno si attribuisca un titolo che forse non ha. Tra gli altri compiti, la Deputazione aveva avuto da Ferdinando II anche quello di redigere un libro blu della nobiltà napoletana. Lo stiamo ancora aggiornando, ma è una cosa complessa. I deputati non devono solo provare la discendenza, devono anche aver seguito un certo regime di vita – non so se mi spiego –, essere osservanti e rispettosi della religione. Anticamente, per esempio, non potevano essere deputati quelli che avevano fatto un duello, o quelli che avevano partecipato a moti rivoluzionari. Un equivalente di oggi? Il divorzio, o forse le speculazioni finanziarie.
Il punto è che in tutto quello che succede a Napoli, San Gennaro seppure involontariamente c’entra, ci ha messo la sua partecipazione. Non è giusto togliere importanza al suo culto dandogli quella forma un po’ folcloristica; non si tratta solo di “san Gennà fammi la grazia”, fai il miracolo; che poi tra l’altro si tratta di un prodigio, che a differenza del miracolo è una cosa fine a se stessa, non va ad avvantaggiare nessuno. Lo scioglimento del sangue è solo un segnale che va interpretato, come hanno fatto e continuano a fare gli studiosi. In verità, l’unico re di Napoli è stato San Gennaro. È l’unico napoletano che ha regnato su questa città, tutti gli altri erano stranieri. A questo è dovuto l’amore, la dedizione al santo, che diventa una sorta di punto di appoggio. Il napoletano ha sempre avuto un po’ di timore e diffidenza verso l’autorità – anche quest’idea del Padreterno che sta lassù, che forse non capisce i nostri bisogni –, invece San Gennaro è un intermediario, è il trait d’union tra l’autorità, il Padreterno e la gente comune.




La cosa divertente è come sia nata la cappella del tesoro, che al contrario di quanto si pensa non si chiama così per i gioielli: il tesoro viene inteso nell’accezione del greco antico, come contenitore e non contenuto, ed è la cassaforte angioina che sta dietro l’altare. Dunque, la cappella precedente era in una torre del Duomo che oggi non esiste più, e si sentiva la necessità di rimaneggiarla. Ma era un momento tragico per Napoli, il 1520 e qualcosa, un periodo in cui gravavano sulla città tre grandi disgrazie: la guerra franco-ispanica, un colera ferocissimo e un’eruzione del Vesuvio. La Deputazione allora, a nome del popolo napoletano, fece un vero e proprio atto notarile, presso un notaio che si chiamava De Bossis, un patto con San Gennaro: se tu ti impegni a liberarci da queste tre piaghe noi ci impegniamo a stanziare una cifra – enorme per l’epoca, non so quanti ducati – per erigere una cappella, che sarà la più bella di Napoli. San Gennaro risolse i loro problemi e fu eretta la cappella, che è veramente bella, oltre a essere un luogo di culto è anche un auditorium con un’acustica pregevolissima, che pochi teatri possono vantare.
Dopo la riforma di Murat ci sono stati degli aggiornamenti, ma nessuna modifica nella sostanza. La riunione si chiama ancora “tornata”, si svolge una o due volte al mese nella sede affianco al Duomo. A essere cambiate, naturalmente, sono le istituzioni con cui dobbiamo interloquire: se prima eravamo nominati su decreto regio, con la repubblica ogni nuovo membro va approvato dal presidente – io fui nominato da Einaudi. Siamo un’organizzazione laica che custodisce degli oggetti sacri di grande valore: il sangue del santo ma anche il busto d’argento che contiene le ossa della testa. È l’unica collezione di opere d’arte e gioielli rimasta intatta dal Cinquecento, ed è stata custodita da noi, nonostante a Napoli sia capitato di tutto: bombardamenti, terremoti, rivoluzioni, invasioni di eserciti stranieri… Non si è perso uno spillo. Questo è stato possibile grazie al culto del santo, ma anche grazie alla nostra bravura, se permettete!
Nell’ultima guerra è stato particolarmente avventuroso. Si decise di trasferire i gioielli in un luogo sicuro, e fu scelto malauguratamente Cassino. Nell’abbazia benedettina, dove c’era un commando tedesco che sorvegliava le opere d’arte, furono mandate le casse contenenti i pezzi più preziosi. A differenza degli americani, che non hanno mai rispettato niente – bombardavano, scassavano, rubavano – i tedeschi almeno erano estimatori, anche se di questi tempi è impopolare da dire. Un ufficiale tedesco, nel momento in cui si capì che gli Alleati avevano in mente di distruggere il monastero, prese sia l’abate che il tesoro e li portò in salvo in Vaticano. Finita la guerra ci fu un momento di confusione, per la paura che il tesoro potesse restare definitivamente nelle grotte vaticane. Il cardinale Ascalesi allora cominciò a raccogliere le forze per riportare il tesoro a Napoli: indisse un grande processione, fece cerimonie, appelli, e chiese all’esercito americano una scorta, ma gli americani risposero che avevano cose più serie da fare. Si rivolse quindi all’esercito francese, di stanza a piazza dei Martiri, ma pure quelli gli dissero che non era cosa. Non si sapeva più come fare, finché non comparve un signore, un certo Navarra, detto “il re di Poggioreale” – praticamente il capo della malavita dell’epoca –, il quale disse: “Non vi preoccupate, ci penso io. Avvertite il Vaticano che arrivo, e vi riporto i gioielli a Napoli con i miei uomini”. Ci fu un po’ di indecisione, qualche perplessità, alla fine il cardinale dette il suo benestare, e Navarra partì. Naturalmente telefonarono da Roma non appena lo videro arrivare: “Qua ci stanno dei brutti ceffi tutti armati che vogliono prelevare i gioielli, glieli dobbiamo consegnare?”.
L’unico intoppo fu nel ritorno, perché questo Navarra era a capo della malavita di Napoli, ma non di tutta la Campania; e quelli che oggi si chiamano “casalesi”, a quei tempi chiamati “mazzoni”, avevano tramato di sottrarre il tesoro durante il traghettamento del Volturno, dove non c’era più il ponte. Di questo però Navarra, che sapeva il fatto suo, fu avvertito, e così fece un giro incredibile, passando addirittura da Roccaraso per evitare gli agguati, riuscendo alla fine a riportare i gioielli in città. Ci hanno fatto pure un film, si chiama Il re di Poggioreale.
L’impegno nella Deputazione è una delle tante tradizioni della mia famiglia. Una famiglia controversa: un papa della Controriforma, il terribile Paolo IV; cardinali, condottieri come Oliviero Carafa, proprietario del palazzo che oggi è il Quirinale; nobildonne, come la bellissima Donn’Anna Carafa, che ammalatasi di vaiolo si fece costruire un palazzo sul mare a Posillipo, a quei tempi periferia, e non si mostrò più in pubblico se non velata. O rivoluzionari come Ettore Carafa, uno degli artefici della rivoluzione napoletana del 1799, che oggi si direbbe uno piuttosto di sinistra… Povero Ettore Carafa, fu uno dei pochi a pagare, insieme agli altri nobili giustiziati dopo la rivoluzione: Carafa, Serra, Sanfelice. Decapitati, ma non con la ghigliottina, ritenuto strumento rivoluzionario. Di questi, Carafa era l’unico che aveva fatto la scuola militare, e difatti fece conquiste nella sua terra, ad Andria, che riuscì a togliere ai Borbone.
Il padre di Ettore era primo gentiluomo di corte, e la madre dama di palazzo. Questo rivoluzionario in famiglia creò un certo scompiglio, si cercò anche di chiedere la grazia a un certo punto, ma la regina di Napoli era pur sempre la sorella di Maria Antonietta di Francia, alla quale i rivoluzionari avevano tagliato la testa per poi buttarla in mezzo alla piazza. Sapete che Ettore Carafa chiese di essere giustiziato guardando il boia? Gli disse: “Racconta al tuo re come sa morire un Carafa”. E il re, quando glielo riferirono, commentò: “Il duchino ha voluto fa’ ’o guappo fino all’ultimo!”.
Di Ettore ce n’è stato solo uno dopo il rivoluzionario: mio zio, che dopo la guerra era presidente dell’Agip. Mio nonno scrisse un saggio su Ettore Carafa, ma rimane una figura poco ricordata nella storia della rivoluzione. Meriterebbe di più anche solo per com’è finito, perché si arrese alle truppe borboniche a Pescara solo quando ebbe la parola, poi non mantenuta, che i suoi uomini sarebbero stati lasciati liberi. Eppure, non c’è una targa, non c’è una strada, solo via Conte di Ruvo, che non si capisce neanche che è lui, perchè il titolo di duca d’Andria forse non gli fu mai attribuito, dato che si trovava già in carcere quando morì suo padre, e bisognava che il re desse il suo benestare per il passaggio del titolo.
Come entra tutto questo nella mia vita quotidiana? Mah, sarebbe come chiedere: “Come ci si sente ad avere i capelli castani?”. Quando uno da bambino sente parlare di queste cose poi le trova normali. A volte il mio nome mi ha anche danneggiato. Nel lavoro ho incontrato persone che godevano nel mettermi sotto, chi pensava: “Questo chissà chi si crede di essere”. Non è stato facile, anche perché mi è stato inculcato di mantenere una certa moralità, il fatto che certe cose non si possono fare. C’è questo freno della dignità. Non è il nome, è un certo rispetto per chi ti ha preceduto. Perché quando muori trovi gli antenati lassù che ti dicono: “Che hai fatto?”. Così cerchi di fare in modo di presentarti bene, di poter dire: “Non ho aggiunto, ma non ho neanche tolto”.
Per molti anni ho lavorato all’Alitalia, prima negli uffici in città, poi, per uno di questi problemi di antipatia, fui trasferito in aeroporto. Per fortuna ho sempre trovato dei colleghi simpatici, grandi mangiate insieme e cameratismo, anche perché spesso avevamo dei turni spaventosi, per esempio dalle due di notte alla mattina presto. Con questo tipo di lavoro non puoi avere altri amici, magari ti invitano a cena e tu devi dire: “Vengo da te, però alle dieci vado via”. Perciò alla fine ci si unisce tra quelli che fanno lo stesso lavoro. Anche questa è una vita sui generis, ecco.
In ogni modo non ho mai fatto molta vita mondana, non sono socio di circoli o altro. Naturalmente gli altri nobili napoletani li conosco tutti, ogni tanto è doveroso farsi vedere a qualche ricevimento per mantenere i rapporti, ma mi divertono di più altre cose. Per esempio, sono un membro dell’accademia della cucina, ci riuniamo per scoprire posti dove fanno preparazioni particolari; e poi debbo confessare un altro vizio: ancora oggi, nonostante l’età, faccio qualche gara automobilistica. Da ragazzo ho raggiunto un buon livello nelle gare su strada in salita; prima si faceva la targa Vesuvio, la Sorrento-Sant’Agata. Ora in zona non si corre più, ma al Nord Italia si continua. Ho un’Alfa Romeo preparata. Così, ogni tanto…
Noi della Deputazione siamo visti come vecchi bacucchi legati a tradizioni e valori non più attuali, che vivono in un mondo tutto loro. Ma prima di tutto siamo dei custodi di beni culturali da usare in maniera moderna. È inutile fare anacronismi. 




I Neoborbonici? So’ simpatici, ma che vuol dire “sono borbonico”, è come dire “sono napoleonico”, “tu sei per Pompeo e io per Cesare”. Sono cose fuori dal tempo. Io lo conosco Carlo di Borbone, viene sempre al miracolo di San Gennaro, è nu brav guaglione, ma che vogliamo fare, lo vogliamo fare re di Napoli? Certo, la Deputazione è un lascito di altri tempi, ma tutte le istituzioni lo sono in qualche misura. E, soprattutto, è un’organizzazione che ha dimostrato di essere valida, perché i gioielli stanno ancora là, nonostante la soprintendenza, il comune, il cardinale… Ogni cardinale nuovo che viene a Napoli, per esempio, non ci può pensare che il sangue di San Gennaro lo teniamo noi, e fa cose di pazzi, telefona a Roma per fare sciogliere la Deputazione; perché se, per assurdo, quel giorno decidessimo di non fare uscire il sangue, il cardinale non potrebbe farci niente. Vuoi fare il miracolo di San Gennaro? Fattello tu, io il sangue non lo caccio! Da parte nostra cerchiamo di difenderci dal cardinale dicendo al sindaco: “Vedi che quello ti vuole fregare il posto, vuole mettere un monsignore al posto tuo!”. E tutto si ripete a ogni cardinale che viene, a maggior ragione se il sindaco è di sinistra. Ma se veramente mi metto a tuzzo col sindaco, col cardinale o col prefetto, che faccio, la guerra contro gli Stati Uniti? Bisogna mantenere un equilibrio. Forse nel Cinquecento e nel Seicento le famiglie della Deputazione avevano un certo potere, oggi ci farebbero una risata in faccia.

Fonte: napolimonitor.com

lunedì 19 agosto 2013

La deportazione dei vinti della guerra del Sud

Domenico Bonvegna

Di solito quando si fa riferimento alla deportazione di uomini e donne, di soldati, di militari, prigionieri e quindi di sconfitti, il nostro pensiero va alle grandi odiose deportazioni di massa del Novecento, realizzate dagli eserciti socialcomunisti e nazisti. Ma le deportazioni di militari sconfitti ci furono anche nel 1860 dopo l’unificazione dell’Italia, con la nascita del nuovo Regno Sabaudo. Migliaia di soldati meridionali dell’esercito regolare che aveva combattuto sotto la bandiera del Regno delle Due Sicilie di Francesco II re di Napoli, sono stati deportati in veri e propri campi di concentramento del Nord a Fenestrelle e a San Maurizio. Tra i primi a parlarne è stato Fulvio Izzo, con il suo “I Lager dei Savoia”, edito da Controcorrente nel 1999. Queste vicende rappresentano un’altra tessera, completamente rimossa dalla memoria degli archivi, che serve a svelare meglio il vero volto del cosiddetto Risorgimento. Decine di migliaia di prigionieri napoletani e soldati pontifici sono stati sottoposti a rieducazione forzata tra stenti e sofferenze indicibili.
Ma oltre a questa brutta storia ne esiste un’altra ancora poco conosciuta, quella della mancata deportazione di almeno quindicimila prigionieri meridionali soldati o cosiddetti briganti nel lontano Borneo. Ne parla il libro di Giuseppe Novero, “I prigionieri dei Savoia”. La storia della Caienna Italiana nel Borneo, edito da Sugarcoedizioni, (pp.163 Milano 2011).
Il libro di Novero nei primi capitoli affronta gli ultimi passaggi della rapida implosione del Regno delle Due Sicilie della dinastia dei Borboni. A cominciare dell’assedio di Gaeta con il ritrovato vigore di Francesco II insieme all’”aquiletta bavara”, la regina Maria Sofia. I due sovrani col restante esercito borbonico scrissero una pagina eroica, resistettero per oltre cinque mesi al massiccio bombardamento del generale Cialdini. Alla fine furono costretti all’esilio a Roma. Ma il libro di Novero si chiede:“Com’era stato possibile eliminare in meno di un anno un esercito con un passato non trascurabile, alimentato da quello che era, allora, il più popoloso Stato italiano? Com’era stato possibile che pochi uomini (i “Mille” di Garibaldi) avessero avuto ragione di un esercito di decine di migliaia di truppe regolari?”. Sono interrogativi che hanno cercato di rispondere gli storici onesti che hanno fatto chiarezza sulla fine del Regno Borbonico.
Una volta conquistata la Sicilia dai garibaldini, il Governo e il Francesco II, non hanno reagito, anzi presero posizioni ondivaghe e invece di combattere, cercarono di negoziare. “E’ forse questa una chiave di lettura per comprendere la sconfitta”, scrive Novero. “Ma da sola non può certamente spiegare l’infelice condotta della campagna da parte del comando borbonico. Gli storici più vicini alla causa borbonica hanno sostenuto che il regno cadde anche per l’appoggio che alcune potenze straniere avrebbero fornito ai Savoia. Ma questa ragione, seppure vera in parte, non riesce a giustificare quella che si rivelò una vera e rapida implosione. Una responsabilità, più chiara di altre, può essere individuata nelle indecisioni, nelle incertezze che accompagnarono molte battaglie”. Ci sono stati troppi errori e troppi tradimenti di alti ufficiali borbonici e questo ricade sui Borboni, che non hanno saputo scegliere collaboratori validi e capaci.
Comunque sia a questo punto si apre il capitolo delle migliaia di prigionieri borbonici in mano al nuovo regno d’Italia. Solo a Gaeta si erano arresi 11.000 soldati. Che fare dei prigionieri che manifestano segnali di indisponibilità ad entrare nel nuovo esercito? “I patti di resa prevedevano un periodo di prigionia. Terminata la reclusione i militari borbonici dovevano decidere che cosa fare: arruolarsi nel nuovo esercito o affrontare le incognite di un rifiuto carico di incertezze”. La Civiltà Cattolica, rivista dei Gesuiti, racconta del trattamento disumano che è stato impiegato nei confronti di quei soldati meridionali: “quei meschinelli, appena coperti da cenci di tela, e rifiniti di fame perché tenuti a mezza razione con cattivo pane e acqua e una sozza broda, furono fatti scortare nelle gelide casematte di Fenestrelle e d’altri luoghi posti nei più aspri luoghi delle Alpi”. Si scrisse che esiste una vera tratta dei Napoletani, si trattò di gestire un numero enorme di prigionieri, trasferiti a Genova via mare, per essere poi smistati nei forti di Fenestrelle e di San Maurizio. Questi furono veri campi di rieducazione, simili ai gulag sovietici o maoisti.
Il problema rimane aperto per tanti anni anche perché intanto nel Sud è scoppiato il cosiddetto Brigantaggio, molti soldati ex borbonici insieme alla popolazione civile del Sud preferirono darsi alla macchia e combattere il nuovo Stato, una guerra civile durata fino agli anni 70.
Il nuovo governo deve affrontare una guerra anomala, che procura tanti morti e tanti prigionieri, così gli uomini di governo decidono addirittura di deportare parte di questi prigionieri da qualche parte lontano, si cercò di trovare un “angolo di terra” dove confinare i detenuti italiani. C’era la necessità di allontanare migliaia di oppositori, deportandoli in una Caienna italiana, per porre fine agli annosi problemi.  In un primo tempo si pensò alla regione sconfinata e disabitata della Patagonia in Argentina. Poi in Tunisia, alla fine ecco scattare “l’operazione Borneo”, affidata al comandante Carlo Alberto Racchia e alla nave Principessa Clotilde.
Il libro di Novero attraverso i carteggi diplomatici, le relazioni di governo, i dispacci e i diari di bordo delle navi, racconta tutte le fasi del progetto di fondare una vera e propria colonia penale nell’Estremo Oriente. In una lettera del ministro degli Esteri del Regno d’Italia, Emilio Visconti Venosta così si esprimeva: “Se ci ponessimo in Italia ad applicare la pena di morte con un’implacabile frequenza, se ad ogni istante si alzasse il patibolo, l’opinione e i costumi in Italia vi ripugnerebbero o per assolvere o per ammettere in ogni caso le circostanze attenuanti. Bisogna dunque pensare ad aggiungere alla pena di morte un’altra pena, quella della deportazione, tanto più che presso le impressionabili popolazioni del Mezzogiorno la pena della deportazione colpisce più le fantasie e atterrisce più della stessa morte”.
In pratica si cerca un territorio dove costruire uno stabilimento capace di contenere almeno quindicimila deportati, ma i tentativi del governo italiano fallirono, dovette fare i conti con le resistenze delle potenze coloniali inglesi e olandesi.
Ma la deportazione avvenne lo stesso, dopo il 1870, migliaia di meridionali in massa abbandonarono le proprie terre per trasferirsi nelle Americhe, il fenomeno assunse “proporzioni bibliche”, quasi 8 milioni di individui hanno lasciato l’Italia.



Fonte: Osservatorio Sicilia


domenica 18 agosto 2013

La storia da riscrivere: deportato a 13 anni



Dagli archivi di Livorno, grazie alle ricerche di un nostro valoroso volontario, emergono molte notizie inedite e drammatiche relative alla nostra gente (soldati e “briganti”) dopo il 1860.
Tra esse la storia di un ragazzo di 13 anni sospettato di volontà “brigantesche” e deportato in un isola dell'arcipelago toscano. 
Nei pochi e sentiti versi di Manfredi Adamo, la sintesi della tragedia ancora sconosciuta e ancora, spesso volontariamente e colpevolmente, ignorata. 

Ero nu guaglione
quanno vedette patemo ‘e partì.
Dicette ca nel Meridione
tanta fratelli vulevano venì.
Ma nuje nun putevamo cchiù ascì,
mammà me nzerraje ‘ncasa,
‘e scole chiudetteno, gnorsì,
e nun trasevano turnese.
Appaurato, passavano jurnate,
mammà chiagneva e s’ammalava.
Je m’addumannavo quale pate
lassava ‘na famiglia e nun turnava.
Sapette na dummeneca mmiez’ ‘o paese
ca ll’uommene se ne jettero tutte quante:
i “fratelli” erano cannune piemontese,
papà addeventaje nu Brigante!
Jammo mammà, papà sta ‘ncoppa ‘e muntagne, 
sarrà muorto ‘e famme, s’è annascunnuto,
appripara pane, patane e pupagne…
lassame purtà forse ll’urdemo saluto.
Figlio mio addò vai, da li gguardie t’hè a fa castigà!
Mammà so’ gruosso nun me faccio piglià, 
Je tengo tridece anne...
e voglio fa ‘o Brigante comme a papà!

(Manfredi Adamo)

lunedì 12 agosto 2013

Pontelandolfo: per non dimenticare






Il 14 agosto del 1861 si consumò uno dei più atroci eccidi che la Nostra Gente abbia mai conosciuto nella sua storia millenaria. Nemmeno i turchi ed i pirati saraceni si sono mai macchiati di simili crudeltà verso popolazioni inermi, contro antichi paesi, contro la nostra civiltà contadina, profanando i templi della religione dei nostri padri.
Il 14 agosto del 1861 i fratelli cattivi di quell'Italia matrigna che invasero uno stato libero ed indipendente, vollero e seppero sporcare le loro divise con il sangue di migliaia di contadini rei di essere gli eredi di una cultura antica e concreta; rei di aver costruito la loro economia sull'essenziale improntata sulla concordia, sulla solidarietà cristiana e sulla tolleranza; rei di aver difeso strenuamente la loro terra ed i loro sacri ed antichi valori.
Ricordiamo con profonda commozione questa data che segnò l'inizio di una stagione di violenze, di dolore, di lutti e di devastazioni che culminò con l'annientamento di 84 paesi, la morte di oltre 658.000 civili ed il totale asservimento politico ed economico di una Nazione una volta felice e prospera.
"Non vogliamo, non dobbiamo, non possiamo permettere" che il martirio di Pontelandolfo, Casalduni, Capolattaro e di decine di altri paesi svanisca nel nulla del buonismo liberal-massonico, nella filosofia del vogliamoci bene di "chi ha avuto ha avuto e chi ha dato ha dato ...": l'ingiustizia ed i crimini contro l'umanità, perché non si ripetano, si combattono con la forza della memoria e non con il velo dell'oblio.  

In allegato alcune pagine estratte dal diario del bersagliere Margolfo Carlo, appartenente al 6° Battaglione, 2° Compagnia  del 4° Corpo d'armata comandata dal criminale di guerra Cialdini. 
Margolfo partecipò all'eccidio di Pontelandolfo e la sua testimonianza scritta rappresenta per la verità storica, un documento di estrema importanza, un'autodenuncia che fa rabbrividire.






CRONACA DI UNA STRAGE

Cialdini aveva ordinato al generale Maurizio de Sonnaz che di Pontelandolfo e di Casalduni "non rimanesse pietra su pietra". 
Il 13 agosto 1861, formate due colonne con il 18° reggimento bersaglieri, una di 500 uomini, al comando del tenente colonnello Pier Eleonoro Negri, si dirige verso Pontelandolfo, l'altra di 400 uomini, al comando del maggiore Carlo Magno Melegari, si dirige verso Casalduni. 
Prima di entrare nei paesi, le colonne hanno uno scontro con una cinquantina di insorti che sono costretti a fuggire nei boschi, dopo avere ucciso venticinque bersaglieri nel combattimento. 
All'alba del 14 Pontelandolfo è circondata. Dopo che un plotone ha contrassegnato le case dei liberali da salvare, entrati nella cittadina, i bersaglieri, per ordine di Negri, fucilano chiunque capita a tiro: preti, uomini, donne, bambini. Le case sono saccheggiate e poi tutto il paese è dato alle fiamme e raso al suolo. Gli assassini in divisa compiono vere e proprie atrocità. I morti sono oltre mille. Per fortuna numerosi abitanti sono riusciti a scappare a quel massacro rifugiandosi nei boschi.
Nicola Biondi, un contadino di sessant'anni, è legato ad un palo della stalla da dieci bersaglieri, i quali denudano la figlia Concettina, di sedici anni e la violentano a turno. La ragazza, sanguinante, sviene per la vergogna e per il dolore. Il bersagliere che la stava violentando, quasi indispettito nel vedere quel corpo esanime, si alza e la spara. Il padre della ragazza, cercando di liberarsi dalla fune che lo teneva inchiodato al palo, è fucilato dai bersaglieri. Le pallottole rompono la fune e Nicola Biondi cade carponi nei pressi della figlia. Nella casa accanto, un certo Santopietro, con il figlio in braccio, sta per scappare, ma è bloccato dai militari che gli strappano il bambino dalle mani e lo uccidono senza misericordia. Il saccheggio e l'eccidio durano l'intera giornata del 14 agosto. 
Numerose donne sono violentate e poi ammazzate; alcune che s'erano rifugiate nelle chiese sono trucidate dopo essere state denudate davanti all'altare. Una, oltre ad opporre resistenza, graffia a sangue il viso di un piemontese; le sono mozzate entrambe le mani e poi è ammazzata a fucilate. Tutte le chiese sono profanate e spogliate. Le ostie sante sono gettate, le pissidi, i voti d'argento, i calici, le statue, i quadri, i vasi preziosi e le tavolette votive, rubati.
Gli scampati al massacro sono rastrellati e inviati incolonnati a Cerreto Sannita, dove circa la metà di loro è fucilata. 
Negri poche ore dopo telegrafava a Napoli: "Giustizia è fatta".





martedì 6 agosto 2013

Le Notti dei Briganti a Sant'Elia






SANT'ELIA A PIANISI - Fervono i preparativi per “La notte dei Briganti”. Sarà riproposta a Sant'Elia a Pianisi, domenica 11 agosto, a partire dalle ore 18,00, la manifestazione “Il Borgo rivive”, giunta alla IV edizione. Attraverso la rappresentazione storica saranno rievocati alcuni significativi eventi locali legati al brigantaggio; la serata si aprirà con la riproposizione di uno sposalizio dell' 800 a cura di Rionero Sannitico.

La serata sarà animata dall’esibizione dei Bufu' di Sepino e dagli Zig-Zaghini. Interverranno i Borghi d’Eccellenza, i gruppi di Pietrabbondante e Frosolone. 
Al tramonto, cena nel borgo a base di piatti tipici; sono state allestite per l’occasione angoli suggestivi per la degustazione di piatti tipici: tavern U’ Brgant, locanda Sand V’nnitt, taverna Brigantessa Soriani, cantina Dù Porr, locanda Tre Coll. L'evento sarà anticipato, sabato 10, dal convegno storico sul Brigantaggio, che si terrà alle ore 17,00 presso il convento dei Padri Cappuccini di S.Elia a Pianisi. 
Relatori saranno lo storico, Alessandro Romano, presidente del Comitato Scientifico, il guardiano Padre Emidio Cappabianca. Nel luogo sacro, sarà, inoltre, allestita una mostra: “Briganti: eroi o malfattori”. 




domenica 4 agosto 2013

A Torre del Gerco una strada per Ferdinando II




A  diversi mesi dal sondaggio online stravinto grazie alla nostra battaglia, il Comune di Torre del Greco ha realmente e correttamente dedicato una strada a Ferdinando II di Borbone. 
La storia cambia anche così… Grazie a tutti voi e grazie al comune di Torre che si unisce a tutti gli altri nella ricostruzione della verità storica (di qualche giorno fa la strada dedicata sempre a Re Ferdinando a Montalto in Calabria).  
Link dal nostro sito con l’annuncio dei risultati (ottobre 2011):

http://www.neoborbonici.it/portal/index.php?option=com_content&task=view&id=4087&Itemid=99

Ferdinando II di Borbone vince ancora: ben 1741 i voti raccolti dal Re delle Due Sicilie (44% dei votanti); a distanza Mons.Garofalo (1280) e tutti gli altri “partecipanti” nel segno della verità storica e dell’orgoglio ritrovati: una vittoria di tutti quelli che amano la nostra (grande) storia. E ora non ci resta che aspettare i prossimi passi del correttissimo Comune di Torre del Greco che si è reso protagonista di una scelta autenticamente e culturalmente democratica.
Oltre al rilancio economico di tutta l’area vesuviana (produzione di vini, coralli, paste alimentari) e ai lavori per la valorizzazione dei porti, Ferdinando II, il Re dell’orgoglio e dei primati, fondò nel 1841  l’Osservatorio Veusviano (tra Torre ed Ercolano), la prima struttura al mondo utilizzata per l’osservazione e lo studio del vulcanesimo; aveva il suo casino di caccia alle Mortelle e nel 1840 rese possibile il collegamento ferroviario con la popolosa città vesuviana.