lunedì 29 luglio 2013

La strage di Auletta: un altro crimine negato dal Risorgimento



30 luglio 1861/30 luglio 2013. 
Un altro anniversario dimenticato della nostra storia: 152 anni dal massacro (sabaudo) di Auletta. Così il grande Giacinto de’ Sivo descrive le “stragi di Auletta” (Storia delle Due Sicilie, vol. II, p. 500). 

“Auletta terra di tremila anime nel Salernitano, sopportata male la rivoluzione, sentendo dura la tirannide liberalesca, anelava a scuotere il giogo. Udito ne’ vicini boschi di Petina, Sirignano e Polla una mano di Borboniani li chiamò; i quali muovendo dal bosco Lontrano entrarono il 28 Luglio  tra entusiastiche grida, e balli e suoni e canti attorno all'effigie di Francesco e Sofia. I pochi liberali del luogo corsero a Pertosa e Caggiano, invocando armati per reimporre a’ conterranei la libertà. Nessuno si mosse, eccetto un Peppino Oliva capo nazionale di Pertosa, che con alquanti racimolati satelliti ad Auletta s'accostò, ma ebbe a fuggire indietro. Dappoi accorso da Napoli un battaglione, e la legione Ungarese, preso seco Nazionali mobili sull’alba del 30 circuirono il paese; perloché i Borboniani, veggendo non poter vincere tanti, batterono ritirata; e con poche fucilate s'aprirono il passo. Gli assalitori invece di dare appresso a questi avversari, entrarono nell'inerme paese per la contrada Piano; e spartiti per le vie quante incontravano persone d'ogni età e stato uccidevano, poscia preso nota de’ più facoltosi, n'investirono le case, e dettevi sacco e fuoco. Prima a’ fratelli sacerdoti Pucciarelli, de’ quali tosto D. Giuseppe trucidarono; l'altro D.Giovanni potè fuggire allora, e poi ebbe due anni di carcere. Saccheggiate parecchie case, strapparono dalle paterne mura l'arciprete Amato, con altri tre sacerdoti, e Francescantonio Carusi, e per fucilarli menaronli avanti la chiesa rovesciata dal tremuoto, e là inginocchiati tennerli molto tra vita e morte; e come un di quei preti settuagenario non reggendo in ginocchio s'alzò, un sergente col fucile gli ruppe il capo. Poi li menarono nel paese a ludibrio, e cavati dalle case altresì i germani Nicola e Giuseppe Carusi, Nicola Amato, Raffaele Lafragola e altri, tutti s'inginocchiarono al largo Campinelli, e con le battiture straziarono; sinché per le lagrime di molti e massime d'una cognata dell'arciprete che col bambino in collo seguendoli al supplizio spettava i sassi. Il capitano fe’ grazia. Tra questi un Vittorio Amorosi liberato appena, correndo a consolare la sua famiglia alla Casina, ripreso per via da altri soldati, è serrato in una chiesa, e là dentro con altri scannato. Così sommariamente i liberatori quarantacinque persone assassinarono; un cento ne ligarono, che con infiniti strazii e conturmelie trascinarono a Salerno, dove il durissimo carcere biennale loro parve una fortuna. Di Auletta arsa sonò alto la fama, anche ne’ giornali governativi, che loro scelleratezze anche esageravano per ispaventare, curando il possesso, non l'infamia”.

giovedì 25 luglio 2013

La Legge Pica: il feroce strumento repressivo contro il Popolo Meridionale




In tempi di difese d’ufficio (retoriche e senza più supporti di studi e ricerche) delle tesi “risorgimentaliste” ormai superate nel senso comune grazie al lavoro di storici magari “senza la patente” di “storico ufficiale” ma appassionati e documentati, un anniversario importante che la storiografia dimenticherà senza alcun dubbio. Tra qualche giorno i 150 anni della Legge Pica: la legge che autorizzò i sabaudi-italiani a massacrare “legalmente” chiunque si opponesse alla liberazione-conquista del 1860. La legge “per uccidere i meridionali”. Anche con effetto retroattivo, poteva essere qualificato come brigante e veniva giudicato dalla corte marziale chiunque fosse stato trovato armato in un gruppo di almeno tre persone; concessa la facoltà di istituire delle milizie volontarie per la caccia ai briganti; stabiliti dei premi in danaro per ogni brigante arrestato o ucciso; lavori forzati o detenzione per chi prestasse generici aiuti o sostegni (anche un pezzo di pane e formaggio) ai briganti… Migliaia le vittime di quella legge, vittime che nessuno ha mai veramente contato e raccontato.  Giuseppe Pica (abruzzese, deputato, senatore e docente universitario), è un esempio di quei meridionali anti-borbonici che “vollero l’unificazione italiana” e che spesso sono magnificati dagli storiografi ufficiali. Dobbiamo aggiungere altro per capire quali meridionali si candidarono e come furono scelti per diventare classi dirigenti? G.D.C.
Ottimo intervento di Gigi Di Fiore sul suo blog

I primi 2 significativi articoli della Legge Pica

Art. 1. Fino al 31 dicembre corrente anno nelle Provincie infestate dal brigantaggio, e che tali saranno dichiarate con Decreto Reale, i componenti comitiva o banda armata composta almeno di tre persone, la quale vada scorrendo le pubbliche vie o le campagne per commettere crimini o delitti, ed i loro complici, saranno giudicati dai Tribunali Militari, di cui nel libro II, parte II del Codice Penale Militare, e con la procedura determinata dal capo III del detto libro.
Art. 2. I colpevoli del reato di brigantaggio, i quali armata mano oppongono resistenza alla forza pubblica, saranno puniti colla fucilazione, o co' lavori forzati a vita concorrendovi circostanze attenuanti. A coloro che non oppongono resistenza, non che ai ricettatori e somministratori di viveri, notizie ed ajuti di ogni maniera, sarà applicata la pena de' lavori forzati a vita, e concorrendovi circostanze attenuanti il maximum de' lavori forzati a tempo.

martedì 9 luglio 2013

Per negare Fenestrelle si colpisce la memoria storica


Distrutta la lapide di Fenestrelle 
un’offesa grave e inutile alla memoria storica        

Tra il 1860 e il 1861 vennero segregati nella fortezza di Fenestrelle  migliaia di soldati dell’esercito delle Due Sicilie che si erano rifiutati di rinnegare il re e l’antica patria. Pochi tornarono a casa. I più morirono di stenti. I pochi che sanno si inchinano”
Questo era il testo della lapide apposta nel 2008 a Fenestrelle dai Comitati delle Due Sicilie di Fiore Marro per ricordare i soldati delle Due Sicilie prigionieri dei Savoia morti in quella terribile fortezza diventata (giustamente e coerentemente con la sua terribile storia) il simbolo della tragedia vissuta da decine di migliaia di nostri soldati  all’indomani dell’unificazione italiana. 
Lo storico medievista Alessandro Barbero è stato autore addirittura di un libro (al centro di numerose polemiche) per smentire quella lapide e gli  studi che, dopo un secolo e mezzo di colpevole silenzio, avevano raccontato quelle storie scomode per chi è abituato alle solite storie “risorgimentali”. “Quasi tutto quello che venne detto in occasione di quella manifestazione -per lo storico piemontese- è menzogna e mistificazione così come menzognera è la lapide che incredibilmente l’amministrazione del forte ha consentito di esporre… un’invenzione storiografica e mediatica: tanto più ignobile in quanto rivolta ad un’opinione pubblica frustrata e incattivita”. Un linguaggio violento e non proprio consono ad un dibattito storiografico tuttora in corso: le ricerche di Barbero sono limitate per quantità e durata (esaminato il 2% circa del materiale documentario esistente sul tema e tra il 1860 e il 1862…) ed è necessario continuarle, come fu sottolineato anche nel corso di un acceso confronto da chi scrive. Un linguaggio violento e sostanzialmente anche immotivato: effettivamente furono segregati in quella fortezza migliaia di nostri soldati, effettivamente perché non vollero rinnegare re e patria, effettivamente in tanti morirono di stenti e in tantissimi non tornarono più a casa e, effettivamente, per oltre 150 anni, nessuno li aveva mai ricordati. Quali le “controindicazioni” di quella piccola lapide cristianamente rispettosa della nostra storia a fronte, tra l’altro, di migliaia di lapidi  retoriche e bugiarde dedicate magari ai massacratori dei meridionali in giro per l’Italia? Quali le motivazioni per il suo spostamento dalla piazza ad una cella e da quella cella, in pezzi, in un contenitore di plastica? I cocci li hanno raccolti gli stessi Comitati durante la loro ultima manifestazione (già pronta, naturalmente, una nuova lapide… Nessun collegamento, è ovvio, tra le polemiche di Barbero e la cancellazione di quel pezzetto di memoria storica, ma ci aspettiamo, dopo il silenzio in occasione delle recenti cenette a lume di candela (burlesque compreso) oggettivamente poco rispettoso della stessa tragica e secolare storia di quel luogo di sofferenza e morte, un suo intervento contro chi, effettivamente “frustrato e incattivito”, ha pensato di fermare la dilagante e sacrosanta opera di ricostruzione di verità storica e memoria avviata dagli antichi Popoli delle Due Sicilie, ma senza riuscirci e, anzi, rafforzandone addirittura le motivazioni: le lapidi del cuore e dell'anima non si possono più cancellare. 
Gennaro De Crescenzo












lunedì 1 luglio 2013

Incontro Neoborbonico a Pomigliano D'Arco



Il prossimo appuntamento per compatrioti, amici e simpatizzanti è fissato a Pomigliano d'Arco, giovedì 4 luglio, alle ore 18.00, presso la Sala Fellini, sita in Via Roma, ex stazione Circumvesuviana, in occasione della presentazione del libro "I PEGGIORI 150 ANNI DELLA NOSTRA STORIA", di Gennaro De Crescenzo, editore IL GIGLIO.

Un dibattito aperto sulla questione meridionale con l'autore prof Gennaro De Crescenzo.





Il degrado economico e sociale delle regioni del Sud è la conseguenza dell’unificazione italiana.
Prima dell’unità, le regioni meridionali erano allo stesso livello o a livelli maggiori di ricchezza diffusa, industrializzazione e alfabetizzazione delle regioni settentrionali e perfettamente in media con i maggiori Stati europei.
Il Regno delle Due Sicilie era il più ricco e florido Stato della penisola, considerato e rispettato in campo internazionale anche per lo spirito di iniziativa e di intrapresa delle sue popolazioni. Dopo l’unificazione è iniziato un lento ed inesorabile decadimento che ha portato il Sud alla miseria, concentrando ricchezze, lavoro e benefici al Nord. Da quel degrado il Meridione non è più uscito.
No, non si tratta delle solite lamentazioni “borboniche”, un po’ nostalgiche e un po’ giustificatorie, dei soliti storici “non ufficiali” e poco attendibili.
Questa volta, si tratta delle conclusioni alle quali sono giunte le ponderose ricerche scientifiche di accreditatissimi studiosi del CNR, della Banca d’Italia e dello Svimez.
Dal loro esame Gennaro De Crescenzo è partito per ribadire, numeri alla mano, che l’unificazione d’Italia è stata l’origine del sottosviluppo del Meridione e che gli ultimi 150 anni dovrebbero essere cancellati non certo celebrati.
E anche per tirare le somme di anni di battaglia culturale, durante i quali gli avversari sono sempre sfuggiti al confronto aperto, riparando sotto lo scudo delle accademie e degli istituti filosofici.
Questa volta, gli storici “ufficiali” non possono liquidare tutto con un sorrisetto di sufficienza, tornando a ripetere il solito bla-bla risorgimentalista.
Questa volta, il lavoro degli storici “non ufficiali” riceve conferme autorevoli che non potranno essere demonizzate facilmente con l’accusa di “borbonismo”.
Soprattutto, trova conferma il semplice fatto che la ricerca storica si fa negli archivi, leggendo documenti, consultando annuari e repertori, confrontando dati e statistiche.
Quando questo avviene, come nel caso dei recenti studi esaminati da De Crescenzo, le conclusioni sono univoche: l’unità d’Italia è stata devastante per il Sud che, progressivamente, è stato depredato, svuotato di beni e di uomini, usato come magazzino di manodopera a buon mercato, come discarica di lavorazioni inquinanti e di rifiuti tossici, come cimitero di opere pubbliche ideate per ingoiare miliardi destinati agli amici degli amici. A partire dal 1861 e fino a quando la storia è divenuta cronaca.
Una devastazione certamente operata con la connivenza delle classi dirigenti meridionali. Quelle classi dirigenti politiche, economiche e culturali che sono state selezionate, istruite, formate e asservite da coloro che da questa unità ottenevano vantaggi, potere e ricchezza.
Classi dirigenti senza spina dorsale perché senza identità e senza cultura, grazie anche alle bugie ed omissioni di quegli storici “ufficiali”.
Tra passato e presente, Gennaro De Crescenzo traccia un rapido schizzo, ma come sempre documentato in modo ineccepibile, di cosa l’unificazione ha rappresentato e prodotto, di quali eventi hanno avuto conseguenze ancora in progress, di chi dovrebbe tacere invece di accampare pretese, di chi avrebbe motivi per ribellarsi e non lo fa. E punta il dito contro i veri nemici del Sud.