domenica 31 marzo 2013

La Pasqua del Signore




Gesù è morto ed è risorto perché i suoi figli morissero dal peccato per rinascere nella fede.

Tutti gli uomini di buona volontà traggono la loro salvezza eterna dedicando le loro afflizioni, le loro amarezze, i loro dolori, le loro croci, la loro vita a Cristo unico e vero consolatore, Signore dei giusti, degli indifesi, degli emarginati e degli oppressi.

Con i più cari e sinceri auguri per una fede rinnovata e rafforzata nella Pasqua del Signore.  




venerdì 29 marzo 2013

I vuoti di memoria di Giorgio Napolitano



Ignazio  Coppola


Domenica 24 marzo il Presidente della Repubblica Italiana Giorgio Napolitano, assieme al Presidente tedesco Joachim Gauck hanno ricordato e commemorato a Sant’Anna di Stazzema le 560 ( uomini, vecchi donne e bambini) vittime, il 12 agosto di 69 anni fa, della ferocia nazista. 
Il 17 marzo scorso lo stesso Presidente della Repubblica Italiana non aveva mancato di celebrare, con enfasi e con l’immancabile commozione di sempre, il 151° anniversario dell’Unità d’Italia. Due significativi avvenimenti nei quali il Capo dello Stato, come sempre, ha fatto un richiamo alla memoria. “ Tra  le pietre –ha detto Napolitano nel suo discorso celebrativo a Sant’Anna di Stazzema- c’è la pietra della memoria. La memoria storica è un bene comune. Sono alla fine del mio settennato, probabilmente questo sarà il mio ultimo atto pubblico e sono felice che si svolga proprio qui nel segno della riconciliazione con un atto di giustizia nei confronti di quelle migliaia di  vittime innocenti della barbarie nazista”.
Ma se la memoria storica, come sostiene Napolitano, è un valore comune, c’è da chiedersi come mai nelle ricorrenti celebrazioni dell’Unità d’Italia non sono mai state ricordate e commemorate, in particolar modo dal nostro Capo dello Stato sempre giustamente sensibile alle vittime della barbarie nazista, le migliaia di vittime innocenti (uomini, vecchi, donne violentate e stuprate ) e bambini del meridione massacrate e passate per le armi dall’esercito italo-piemontese agli albori dell’Unità d’Italia.
Più di mille abitanti di Pontelandolfo e Casalduni, in provincia di Benevento, in un solo giorno, l’11 agosto del 1861, furono, per rappresaglia, peggio di quanto fecero i nazisti anni dopo, tutti massacrati, nessuno escluso, e le case dei due paesi, rase interamente al suolo dai fanti e dai bersaglieri piemontesi del generale Cialdini ( a questo criminale in Italia sono state poi dedicate numerose strade).. Pontelandolfo e Casalduni terribili analogie ( anche nelle date) di quanto avverrà esattamente 83 anni dopo a Sant’Anna di Stazzema e Marzabotto. Ma delle stragi dei primi anni dell’unità d’Italia non c’è memoria nelle celebrazioni e nelle commemorazioni della storia del nostro Paese. Come non v’è memoria, o peggio ancora una memoria falsata, degli eccidi e dei massacri perpetrati dai liberatori italo-piemontesi a danno di decine e decine di migliaia di abitanti e di contadini del sud in una guerra civile contrabbandata dai libri di storia come lotta al Brigantaggio. E a tal proposito Antonio Gramsci, nel 1920, ebbe così a scrivere su Ordine Nuovo:” Lo stato italiano è stato una dittatura feroce che ha messo a ferro e a fuoco l’Italia meridionale, squartando, fucilando e seppellendo vivi i contadini poveri che scrittori salariati tentarono di infamare con il marchio di briganti”.
Di tutti questi massacri ed eccidi da ricordare doverosamente, al pari dei tanti crimini nazisti, il nostro Presidente della Repubblica ed i libri di storia pare non ne abbiano memoria. Come non hanno memoria della rivolta palermitana del settembre del 1866, altrimenti detta del ”sette e mezzo”, (durò infatti sette giorni e mezzo ) e repressa nel sangue dai 40.000 soldati del generale Raffaele Cadorna inviati espressamente in Sicilia. Una sanguinosa repressione, dopo la proclamazione dello stato d’assedio, in cui trovarono, in una terribile settimana di sangue, la morte diverse migliaia di Palermitani.  Di questa rivolta che segnò drammaticamente la storia di Palermo, se ne sono perse le tracce nella memoria del Presidente Napolitano e nei libri della storiografia ufficiale e scolastica.
E troppo tardi, essendo alla scadenza del suo mandato che il Capo dello Stato si faccia ritornare la memoria, per rendere giustizia ad una verità storica di cui i meridionali sono abbondantemente creditori per avere più di tutti contribuito con i loro sacrifici e con il loro sangue all’Unità del Paese. Ma c’è sempre tempo perché il nostro presidente, scaduto a giorni il suo mandato, si possa dedicare con passione a quelle letture pregne di verità storica che abbiano il pregio di colmare i numerosi vuoti di memoria che hanno caratterizzato spesso i suoi  discorsi celebrativi dell’Unità d’Italia.
I tribunali ordinari non potranno più perseguire i crimini nazisti e quelli commessi agli albori dell’Unità d’Italia a danno delle popolazioni meridionali, ma i tribunali della storia  cancellando l’oblio e i vuoti di memoria che per tanti anni hanno caratterizzato, in ogni epoca, le vicende del nostro paese e rimuovendo le colpe storiche, morali e politiche renderanno, alla fine, con una memoria condivisa, giustizia al trionfo della verità nei confronti delle decine e decine di migliaia di vittime di ogni forma di ferocia e di barbarie.



giovedì 28 marzo 2013

la Reazione Borbonica in Contado di Molise





E’ stata lanciata una sottoscrizione pubblica, attraverso il sito "Produzioni dal basso", per sostenere l'edizione di un libro di Angelo D'Ambra, preceduto da una introduzione di Lorenzo Terzi, dal titolo La reazione borbonica in Contado di Molise.
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Thesaurus Edizioni è il marchio editoriale di Thesaurus, società attiva principalmente nel settore dei beni e delle attività culturali. La società dal 2011 edita il periodico specialistico "Scrinia. Rivista di Archivistica, Paleografia, Diplomatica e Scienze Storiche". 
Con la pubblicazione di questo volume di Angelo d'Ambra Thesaurus intende inaugurare nuove linee editoriali e offrire nuovi contributi alla ricerca storica. Ha deciso di mettere a disposizione l'esperienza già maturata con la rivista a favore di quei validi autori che trovano difficoltà ad inserirsi nel mercato del libro, senza pretendere alcuna partecipazione alle spese e, anzi, riconoscendo agli autori un'equa percentuale sulle vendite e sullo sfruttamento economico dell'opera. 
Proponiamo dunque questo saggio del giovane ricercatore nolano Angelo d'Ambra, studioso del cosiddetto "brigantaggio", il quale ha costruito la sua ricerca su documenti d'archivio, analizzandoli con ottima capacità critica. 
Il volume è pronto per la stampa.
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domenica 24 marzo 2013

Sud più povero della Grecia: complicità e silenzi colpevoli


   

Il Sud è più povero della Grecia. Lo stipendio medio di un meridionale è di 17.957 euro (in Grecia 18.454): nel Nord Italia, invece, arriva a oltre 30.000 euro (pari a quello di Germania e Austria). Una famiglia meridionale su quattro al Sud è povera (il doppio della media italiana: una su otto). Dei 500.000 posti di lavoro persi dall’inizio della crisi oltre 300.000 sono stati persi al Sud dove il PIL si è ridotto il doppio di quanto si sia ridotto al Centro-Nord (2007-2012: oltre 10% a fronte del 5,7%). A Napoli e in Campania i dati più drammatici seguiti da quelli della Sicilia e della Calabria. Lo ha scritto il Censis qualche giorno fa, ma a nessuno importa e si continua a discutere del “rischio-Grecia” (quella Grecia così vicina a noi meridionali, tra l'altro, anche per le antiche e gloriose radici). 
Qualcuno grida ancora “prima il Nord” e qualcun altro lo asseconda e lo ha assecondato. E intanto continua il giochino delle alleanze e dei rifiuti mentre il Sud (neanche la sola parola), dopo la sua assenza nei programmi elettorali di tutti i partiti, è assente pure nei punti programmatici urgenti offerti per il “nuovo” governo. In realtà nessuno interviene anche perché, la storia lo dimostra, la precarietà e l'indigenza sono elementi essenziali per impedire i cambiamenti: solo così si può essere sicuri che i soliti partiti (destra o sinistra, poco importa), gli stessi che hanno ridotto il Sud in queste condizioni, prenderanno la dose necessaria di voti in cambio delle solite elemosine elargite sul territorio. Una trappola che dura da oltre 150 anni. E dalla quale si esce con una consapevolezza diffusa e radicata, con un orgoglio ritrovato e con classi dirigenti finalmente e veramente nuove per chi si sente sempre meno rappresentato e difeso a livello politico ma anche culturale ed economico. Sono gli obiettivi per i quali da sempre, senza scorciatoie illusorie e senza compromessi utilitaristici, Movimento Neoborbonico e "Parlamento delle Due Sicilie" si battono e si batteranno con l'aiuto dei tanti che si sono affiancati a noi in questi anni.

(ARTICOLO COMPLETO SU www.parlamentoduesicilie.it) 


sabato 23 marzo 2013

1855: La prima tangenziale di Napoli



di
Gerardo Mazziotti

Al re Ferdinando Carlo Maria di Borbone, sovrano del Regno delle Due Sicilie, che gli chiedeva quanto fosse larga la strada che avrebbe collegato via Santa Teresa al Museo con Mergellina, l’architetto Enrico Alvino rispose che sarebbe stata sufficiente per garantire la percorrenza di due carrozze. Ma il re gli disse che bisognava “realizzare una strada percorribile da almeno quattro carrozze in vista del traffico che si verificherà in futuro nei collegamenti tra i quartieri occidentali e quelli orientali della capitale”. E Alvino eseguì. Quando si dice della lungimiranza della classe dirigente dell’Ottocento. Questo aneddoto mi sembra pertinente per richiamare l’attenzione dei napoletani e dell’attuale amministrazione comunale su un primato borbonico, che non può essere oggetto dei commenti ironici che, in polemica con una recente storiografia sui Borbone di Napoli, certi storici fanno sulla ferrovia Napoli-Portici (la prima d’Italia), sulle Reali acciaierie di Mongiana, sulla Fabbrica della ceramica di Capodimonte, sull’utopia realizzata di San Leucio, sulla Reggia di Carditello e sugli altri “primati” del Regno delle Due Sicilie. Tra i quali la raccolta differenziata dei rifiuti (quando le città del Nord non sapevano nemmeno cos’era e Ugo Foscolo esclamava: “Milano è una cloaca maligna”). Alla fine del 1855 veniva ultimata la strada di collegamento veloce tra la parte occidentale e quella orientale della città di Napoli. Una vera e propria tangenziale, la prima del mondo senza alcun dubbio, posta tra i quartieri spagnoli e la collina del Vomero, dal Largo del Mercatello (oggi piazza Dante) a Mergellina. Una strada panoramica e attraversata da moltissime scalinate che, una volta, erano l'unica possibilità di comunicazione tra la città ed il Vomero. Tra queste la famosa scalinata Pedamentina, che, a sentire il poeta “porta le persone in buona salute fin su a San Martino”. In onore della regina la nuova strada carrabile venne chiamata corso Maria Teresa. Otto anni dopo prese il nome di corso Vittorio Emanuele II a seguito della conquista piemontese del Regno delle Due Sicilie. Me lo ricordo attraversato dai binari del tram, che prendevo ogni mattina per recarmi dalla mia pensione in piazza Mercadante alla facoltà di Architettura in via Monteoliveto e viceversa. Pur trattandosi del mezzo di collegamento più diffuso il sindaco Lauro ne decise la soppressione. E sarei tentato di condannarlo più per questa scellerata decisione piuttosto che per il sacco di Napoli, ingiustamente contestato solo a lui e non alle amministrazioni successive. Per il necessario rispetto della storia (diceva Leonardo Sciascia che “lo stradario di una città può considerarsi un grande libro della sua storia, aperto alla consultazione, sia pure veloce, della gente”), insisto sulla necessità di ripristinare l’intestazione originaria. Tanto più che ai Savoia sono stati intestati troppi siti cittadini a fronte dei pochissimi che ricordano i Borbone. È sconsolante vedere questa importantissima arteria ridotta a un budello di defatigante e pericolosa percorribilità: viene autorizzata la sosta delle auto sui due lati con conseguente restringimento della carreggiata (gli autobus pubblici corrono spesso il rischio di restare bloccati per ore); nessun vigile impedisce allo sciame dei motorini di invadere la corsia opposta col rischio, evitato per miracolo, di andare sbattere contro le auto che lo percorrono in senso inverso; viene tollerato che su alcuni marciapiedi svolgano la loro attività i fruttivendoli, gli elettrauto e le officine meccaniche costringendo i pedoni a servirsi della strada carrabile a proprio rischio e pericolo. Insomma, uno spettacolo indecoroso. Non degno di una città civile. Un buon motivo per il sindaco de Magistris per ridare al corso la originaria denominazione e la sua originaria funzione di collegamento veloce della città. Le strade carrabili sono fatte per le auto in movimento e non per quelle in sosta.

Fonte: ROMA online del 21 marzo 2013



giovedì 21 marzo 2013

Gaeta: festival della letteratura e Cultura Locale - FELL


Anche quest'anno il FeLL - Festival della Letteratura e Cultura Locale FeLL - organizzato da Associazione Terraurunca, in collaborazione con Ass. Amici di Gaeta e Museo Diocesano di Gaeta,  apre la stagione già a marzo. 
Il Festival vero e proprio, infatti, sarà preceduto da "Aspettando FeLL", un'occasione per presentare il programma del Festival estivo ed iniziare ad incontrare gli artisti dell'edizione 2013. 
Sabato 23 marzo, alle ore 19.00, doppio appuntamento al Museo Diocesano di Gaeta. Verrà infatti presentato un libro dal titolo “Il Fiume della Vita” della Dott.ssa Paola Pisano, plurilaureata fotografa antropologa. 
Ospiti della serata saranno: il Prof. Francesco d’Episcopo, docente di Letteratura presso l’Università degli studi di Napoli Federico II, ed il Prof. Alberto Baldi, docente di Antropologia presso la medesima Università. A seguire brindisi inaugurale ed apertura della mostra fotografica dei reportage realizzati dalla Pisano in tutto il Mondo. 
Altre importanti novità attendono questo appuntamento. Quest’anno, infatti, ci sarà un passaggio di consegne alla guida del FeLL. La direzione artistica del Festival è stata, quest’anno, affidata all’Arch. Raffaele Fabrizio, già Vicepresidente dell’Ass. Terraurunca e curatore negli scorsi anni delle mostre pittoriche sempre per conto del Festival. 
Il passaggio di guida tra il Dott. Daniele E. Iadicicco, che comunque rimarrà come moderatore di tutti gli incontri, ed il nuovo Direttore avverrà al termine della manifestazione.


Ufficio Stampa

Festival della Cultura e Letteratura Locale
www.terraurunca.com
http://festivalfell.blogspot.it





martedì 19 marzo 2013

Aversa, Marino chiede intitolare strada a dinastia Borbone




Il consigliere municipale invia richiesta al sindaco: 
benefattori della nostra città


Il consigliere comunale del Nuovo Psi, Raffaele Marino, ha inviato una nota al Sindaco di Aversa, Giuseppe Sagliocco, e al Comandante della polizia municipale, Stefano Guarino, nella quale chiede di intitolare strade e parchi pubblici a personaggi storici discendenti della dinastia dei Borbone. 
Considerato il rilievo storico che la dinastia regnante borbonica ha avuto, nel periodo che va dagli inizi del XVIII secolo fino ad oltre la metà del XIX secolo, nella storia della Nostra Città e di tutto ciò che è stato il ‘Regno delle due Sicilie’ e il successivo avvento del brigantaggio, ho chiesto all’Amministrazione comunale di intestare tutte le nuove strade, piazze e parchi a personaggi storici discendenti dalla suddetta dinastia, quali Carlo III di Borbone, Ferdinando IV di Borbone, Francesco II di Borbone, Ferdinando II di Borbone, Gioacchino Murat, il generale Caracciolo ed altri”. E continua il consigliere Marino: “Ho chiesto che almeno una strada sia intitolata al generale dei briganti Carmine Crocco, il quale difese (secondo recenti fonti storiche) quelli che erano gli interessi dell’Antico Regno delle due Sicilie dalle mire usurpatrici dei Savoia che intendevano prosciugare il patrimonio artistico, culturale ed economico del nostro Sud, sacrificando la vita per il suo nobile credo


Fonte
Il Velino Campania /AGV NEWS
Caserta


lunedì 18 marzo 2013

I Fuochi di San Giuseppe



Ad Itri, il paese che ha dato i natali al colonnello Michele Pezza, detto Fra Diavolo, martedì 19 marzo si rinnova la tradizione dei falò di San Giuseppe. 
Col passare degli anni questa iniziativa è diventata la più grande e seguita manifestazione di tradizione, gastronomia e musica popolare in Italia: 9 rioni allestiti con altrettanti falò e stand di prodotti gastronomici tipici, 12 (dodici) gruppi di musica popolare che suoneranno in contemporanea nei vari rioni ed in modo itinerante, ed inoltre giocolieri, mangiafuoco, artisti di strada...
Complimenti all’organizzazione che vede in prima fila, la Pro Loco ed il Comune di Itri ed al nostro Capobrigante Pierluigi Moschitti che da diverse edizioni ne cura la direzione artistica contribuendo, con la scelta di proporre musica popolare del territorio, a rendere questa manifestazione un atteso appuntamento annuale unico nel suo genere.
Per l’occasione bus navetta da Formia e visite guidate al Castello Medievale, dove dimorò anche  Fra Diavolo ed al Museo del Brigantaggio.





domenica 17 marzo 2013

Il 17 marzo non c'è nulla da festeggiare



L’esaltazione massima del cosiddetto risorgimento, massonico e giacobino, è stata l’istituzione (imposta) di una ricorrenza che non ricorda la nascita della Nazione Italiana (2 giugno del 1946), ma solo la proclamazione del Regno d’Italia (17 marzo 1861) fatto in nome di Vittorio Emanuele II di Piemonte che restò “secondo”, e non diventò “primo” come avrebbe dovuto per la fondazione di un nuovo stato, a sottolineare l’annessione dell’Italia al Piemonte. E la cosiddetta Italia annessa in quella data la potete “ammirare” nella cartina che riportiamo. 
Loro oggi festeggiano l’annessione di una parte della vera Italia (manca buona parte del Lazio, senza contare il Veneto) sotto una monarchia generata a negazione di Dio, quello vero, e su principi ideologici di violenza, sopraffazione e razzismo.
Quando questa vergognosa umiliazione della verità e della nostra dignità finalmente cesserà, solo allora si potrà parlare di pacificazione e giustizia.
Per ora solo mortificazione e rabbia.





“17 marzo Festa dell’Unità d’Italia”? 
Meno retorica e più verità storica


Seminari e mostre gratis per le scuole del Sud. In occasione delle celebrazioni previste per il 17 marzo, festa dell’unità d’Italia, il Movimento Neoborbonico ha inviato al Ministro dell’Istruzione, agli Uffici Scolastici Provinciali e agli Assessori all’Istruzione delle regioni meridionali, un programma di seminari, convegni e mostre sul tema “Il Sud prima e dopo l’Unità”. Il programma previsto per le scuole di ogni ordine e grado, è totalmente gratuito e sarà curato da docenti e ricercatori specializzati, con la finalità di ricostruire la verità storica su eventi e significati del “risorgimento” sistematicamente ignorati dalla storiografia ufficiale da oltre un secolo e mezzo.
Dopo i fallimenti delle (costose, unilaterali e retoriche) celebrazioni ufficiali per i 150 anni dell’Italia unita, mai come in questi anni, infatti, si è rivelato necessario ricostruire, sulla base di fonti archivistiche in gran parte inedite, vicende che risultano quanto mai attuali se si pensa ad una questione meridionale tuttora irrisolta e sempre più dimenticata e grave se solo si analizzano i dati relativi all’occupazione giovanile e alla nuova emigrazione soprattutto giovanile nelle antiche terre dell’ex Regno delle Due Sicilie. La ricostruzione della memoria storica (dai saccheggi ai massacri, dallo smantellamento delle strutture industriali alla cancellazione di identità e radici) può essere un passaggio fondamentale per il riscatto di popolazioni sempre meno rappresentate culturalmente, economicamente e politicamente (info e richieste www.neoborbonici.it, www.parlamentoduesicilie.it). 

Ufficio Stampa 347 8492762 






martedì 12 marzo 2013

Il treno dell'infelicità



UNA PAGINA TRAGICA E SCONOSCIUTA

DELLA STORIA DEL SUD

Solo di recente abbiamo scoperto una pagina di storia del tutto sconosciuta, ma non meno drammatica delle pagine della storia dell’unificazione italiana. 

Tra il 1945 e il 1952 oltre settantamila bambini meridionali furono deportati presso le famiglie del Centro-Nord dell’Italia, in un progetto denominato, con una buona dose di cinismo e di retorica, “i treni della felicità”. 
La guerra era finita da pochi mesi e le condizioni dell’Italia erano pietose ed, in particolare, lo erano ancora di più nel nostro Meridione. Le “forze antifasciste” al governo, con ex partigiani ed ex partigiane (tra esse Miriam Mafai, Luciana Viviani e Maria Antonietta Macciocchi, famosa anche per il suo successivo fervore giacobino e antiborbonico) e con l’appoggio del Partito Comunista, dei Comitati di Liberazione Nazionale e dell’Unione Donne Italiane, diedero vita a questo “movimento nazionale di solidarietà che affondava le sue radici nei valori della resistenza: uno degli esempi più fulgidi di come il nostro Paese ha saputo essere unito”…  E fu così che centinaia di treni nella solita direzione Sud/Nord furono riempiti con quei bambini “laceri e denutriti” e spediti nell’Italia centro-settentrionale (in particolare in Emilia Romagna), dove vennero rivestiti, mandati a scuola e curati. Con questa storia “commovente ed esaltante” e con queste premesse, tra l’altro, è stato realizzato un film (“Pane nero”) passato anche alla mostra di Venezia lo scorso anno e ancora in giro, accompagnato da conferenze e seminari con i suoi realizzatori. Un centinaio di questi bambini (è utile sottolinearlo) proveniva da San Severo, in provincia di Foggia: nel 1950, dopo un duro (e giustificato) sciopero, furono incarcerati  circa 200 manifestanti e tra essi anche mogli e mariti che lasciarono soli i loro figli che, invece di essere restituiti ai genitori (magari dopo un giusto e rapido processo), furono “deportati” al Nord. 




In realtà, seguendo il copione delle ideologie più esasperate del tempo (da quella nazista a quella comunista), qualcuno era davvero convinto che chi governava doveva e poteva assicurare la felicità ai propri popoli magari anche a prescindere dai propri popoli o da quello che quei popoli pensavano e sentivano magari perché “incapaci” di apprezzare (al pari -cambiate le cose da cambiare- dei giacobini che nel 1799 massacrarono i “Lazzari” napoletani “incapaci di apprezzare quella rivoluzione”).  
Quello che ci sconcerta, è che si trattò di una quantità enorme di bambini (alcuni anche di pochi mesi): possiamo solo immaginare, per capire meglio le dimensioni della tragedia, un grande stadio stracolmo di piccoli meridionali. Quello che sconcerta di più è che nessuno si chiese allora o si chiede addirittura oggi (basta leggere le recenti e “gioiose” recensioni del film sui principali quotidiani nazionali) se quei bambini erano e furono davvero felici con un piatto di pasta in più, ma senza la loro famiglia e la loro casa.  E se è vero che si trattò di un “movimento di solidarietà nazionale”, possibile che allora o oggi a nessuno sia passato per la mente che quei bambini potevano e dovevano essere aiutati a casa loro?  E che cosa doveva passare per la mente di un bambino di cinque anni (penso a mia figlia) mentre salutava, di notte, i genitori, mentre saliva su un treno circondato da infermiere e da altri bambini in lacrime e, dopo molte ore, si ritrovava al centro di una casa che non era la sua e di una famiglia che non era la sua?  Sconcerta anche l’assenza di approfondimento della questione: che fine fecero tutti questi bambini? Risulta che molti restarono al Nord, ma con quali danni e conseguenze per loro e per le povere famiglie d’origine? E quali furono i costi e le conseguenze in termini di lacerazioni sociali e culturali, invece, per quelli che tornarono nei loro paesi? Come quantizzare, poi, i danni oltre che umani anche economici di questa diaspora? Quei bambini erano e potevano essere il cuore della ricostruzione del futuro del Sud dell’Italia. E non abbiamo neanche il coraggio di scendere nei dettagli magari di quel filmato dell’Istituto Luce (link allegato) nel quale una famiglia bolognese apre con un coltello una scatola di cartone dalla quale prelevano un neonato disperato e in lacrime: terrificante se fosse una ripresa vera, altrettanto terrificante se fosse una finzione propagandistica. Chi aveva il diritto e la presunzione di farci tutto questo e magari anche oggi di dire che siamo incapaci di capire?  In realtà, se “i treni della felicità” fossero stati un episodio isolato nella storia italiana, si potrebbe anche giustificarlo pensando alle condizioni dell’Italia del dopoguerra. Ma, al contrario, l’episodio si inquadra esattamente nella politica che lo stato italiano ha seguito e perseguito con tenacia e determinazione per un secolo e mezzo ai danni del’ex Regno delle Due Sicilie: la cancellazione dalle “agende governative” delle questioni meridionali del passato e del presente, l’assenza di scelte politiche-economiche per salvare o valorizzare il nostro territorio, la deportazione-emigrazione come risoluzione dei problemi locali a vantaggio del resto dell’Italia. Il tutto magari senza più “treni della felicità”, ma con spunti più che mai attuali e altrettanto tragici se solo guardiamo ai recenti dati sulla disoccupazione o sull’emigrazione giovanile dalle nostre parti. 

Gennaro De Crescenzo



“Parlamento delle Due Sicilie – Parlamento del Sud – Commissione Istruzione e Cultura” 

P.S. 
Per queste notizie è doveroso ringraziare Francis Allenby, artista, amico e Napoletano attento e vero.
http://www.youtube.com/watch?v=8LysqpaXscI 

http://www3.lastampa.it/cultura/sezioni/articolo/lstp/419275/ 


DOSSIER COMPLETO SU  www.parlamentoduesicilie.it










domenica 10 marzo 2013

Il Campo di concentramento risorgimentale di Fenestrelle




OSSERVARE LE VICENDE DI OGGI 

PER CAPIRE MEGLIO QUELLE DI IERI



Della questione Fenestrelle si è sempre parlato negli ambienti revisionisti dato che già i primi ricercatori Neoborbonici ebbero modo di capire, attraverso l’incrocio di documenti e dati, che in quelle gelide montagne del Piemonte, nell’indifferenza più assoluta dei politici del tempo e delle autorità internazionali, qualcosa di molto grave si era consumato appena dopo la caduta del Regno delle Due Sicilie.  
Il tempo e le dittature dei Savoia tennero segreta l’atroce fine di parecchie decine di migliaia di prigionieri napoletani, la cui tremenda sorte fu quella di morire per il freddo e la fame, per poi essere sciolti nella calce viva e quindi scomparire per sempre nelle acque del torrente Chisone.   
Qualche anno fa Fulvio Izzo rese di dominio pubblico questa grande tragedia attraverso un accorato saggio “Il lager dei Savoia” che, ad oggi, appare l’unico vero punto di riferimento se non altro morale di una scomoda questione risorgimentale.
Oggi che altre dinamiche culturali si innestano intorno a quelle vicende ed altri interessi cominciano ad insistere su luoghi fino a ieri lasciati nel più totale abbandono, si sta assistendo ad una reazione para-risorgimentalista a scoppio ritardato da parte di chi proprio non fa comodo avere il Forte di Fenestrelle marchiato col sangue di quella raccapricciante storia raccontata dagli storici revisionisti e difesa a spada tratta dai Neoborbonici. 
E’ chiaro che per costruire una sala da ballo su un cimitero occorre per prima cosa far sparire ogni traccia dei morti. Ed è esattamente ciò che sta avvenendo per Fenestrelle, con l’unica variante che là i morti li hanno fatto sparire allora, ma c’è rimasto il loro indelebile ricordo che, se da una parte appare difficile riesumare, dall’atra risulta oltremodo difficile traslare in altro luogo.
Da esclusive esigenze economico-culturali che trae origine la recente campagna di “purificazione” di quel sito. Purificazione che, prove o non prove, deve necessariamente passare prima attraverso la sistematica demolizione di ogni tesi stragista. E qua il corto circuito con tutti noi.
Mentre l’operazione di rilancio prende forma in iniziative ludiche e commerciali di cui vi alleghiamo una breve rassegna, continuano inesorabili le ricerche sugli “scomparsi” di Fenestrelle che in circa 35mila mancano all’appello. 
Nel procedere con le meticolose ricerche tra documenti di archivio, anche non catalogati, seguendo le labili tracce dei “dispersi”, cresce sempre di più il campione dei prigionieri deportati al nord, ed in particolar modo nella Fortezza lager di Fenestrelle, di cui non si hanno più notizie sulla loro sorte e della loro sepoltura. Come dissolti nel nulla o, appunto, come disciolti nella calce.
In allegato uno stralcio del servizio pubblicato dalla rivista specializzata “Storia in Rete” numero di novembre-dicembre 2012.





da STORIA IN RETE 
numero di novembre-dicembre 2012



















venerdì 8 marzo 2013

I Borbone amici della Scienza



di Ruggero Guarini


Gentile e stimato professor Aldo Masullo, leggendo sul “Mattino” un suo toccante articolo sul rogo che ha distrutto la Città della Scienza a Bagnoli, mi ha molto colpito, e anche commosso, un passo in cui lei ha enumerato le molte istituzioni, non soltanto museali, che a Napoli, nell’Ottocento, costituirono (riporto la sua felice espressione) dei “formidabili incubatori scientifici”. 
A questo proposito, infatti, lei ha giustamente ricordato che fra quelle istituzioni spiccano il primo Museo Mineralogico del mondo (creato nel 1801 presso il collegio Massimo dei Gesuiti, fra via Palladino e via Mezzocannone), il primo Orto Botanico italiano (in via Foria: 1807); il primo Osservatorio Astronomico italiano (Capodimonte: 1815); il primo Centro Sismologico italiano (sul Vesuvio: 1841) e la Stazione Zoologica di Anton Dhorn (nella Villa Comunale:1872). 
Questo piccolo elenco le ha permesso di osservare che Napoli, in quel secolo, dunque non fu soltanto, come tutti sanno, la patria di quella cultura umanistica (letteraria, storica, politica e filosofica) che trovò i suoi massimi esponenti in Francesco De Sanctis e Antonio Labriola, ma anche (cosa purtroppo molto meno nota, e spesso dimenticata) la città in cui la cultura scientifica conseguì, più che in ogni altra città italiana, molti prestigiosi “primati” nazionali, e talvolta persino mondiali.
Opportuna e giusta osservazione, alla quale, tuttavia, non  sarebbe stato sconveniente aggiungere che tutti quegli “incubatori”, tranne la Stazione Zoologica di Dhorn (che fu creata quando la nostra città, da capitale del più vasto, popoloso e ricco degli stati pre-unitari, era già stata ridotta al rango di capoluogo di una regione del nuovo stato sabaudo), nacquero durante il regime borbonico.
Suppongo che su questa circostanza lei abbia sorvolato perché la ritiene arcinota. Ma quasi altrettanto arcinoto è ormai un altro fatto che invece le è sembrato necessario ricordare, ossia che Napoli, in quegli anni, “balzò come uno scandalo alle cronache del mondo”. Si dà il caso, tuttavia, che mentre la prima circostanza (da lei omessa) sia una verità di fatto indiscutibile, la seconda (da lei riferita) sia invece una diceria storica ormai da un pezzo molto discussa e giudicata da non pochi seri studiosi del ramo un evidente prodotto della retorica antiborbonica che alimentò il nostro processo unitario.
Quella retorica era ovviamente basata sul presupposto che il Regno delle Due Sicilie fosse il più arretrato e barbarico degli stati preunitari, e che di conseguenza la sua gente vivesse in condizioni molto peggiori di quelle allora toccate a tutte le altre popolazioni della penisola. Ma a provare che questo presupposto è per molti aspetti una panzana concorrono ormai, com’è noto, non pochi dati che, dopo essere stati a lungo misconosciuti e taciuti dalla storiografia ufficiale, sono stati  da un pezzo messi in  luce da quella definita “revisionista”.
Fra tutti questi dati credo che il più sorprendente sia quello riguardante il lavoro e l’occupazione. Per capire che la tesi dell’arretratezza del Sud rispetto al Nord in quel campo è in effetti un pregiudizio basta infatti ricordare che nel 1861, dal primo censimento del Regno d’Italia, risultò che nelle sole province dell’ex Regno delle Due Sicilie il numero degli occupati nel settore industriale (esattamente 1.595.359) era leggermente superiore a quello registrato in tutto il resto della penisola (1.535.437). Ma non meno illuminante è un dato relativo alla salute e alle condizioni igieniche, giacché dalle registrazioni dell’epoca risulta che allora nel Mezzogiorno il tasso di mortalità infantile era più basso che nelle regioni del Nord.
A queste ormai scontate osservazioni, il rogo di Bagnoli permette comunque di aggiungere, sempre ai fini del confronto fra la barbarie dell’èra borbonica e la superiore civiltà di quella unitaria, un appunto nuovo di zecca, riguardante questa volta la correttezza amministrativa: non risulta che qualcuna delle tante istituzioni scientifiche della Napoli preunitaria abbia mai sospeso per mesi e mesi, come è accaduto nella Città della Scienza, sia il pagamento degli stipendi ai dipendenti sia quello dei debiti ai fornitori. 








giovedì 7 marzo 2013

No alla chiusura del Museo del Lombroso



LA FOSSA COMUNE DI CENTINAIA 
DI MERIDIONALI

 NO ALLA SUA CHIUSURA

 NON SI CONDANNA UN CRIMINE 
DISTRUGGENDONE LE PROVE



IL MUSEO DEL LOMBROSO È LA TREMENDA PROVA DI UN EFFERATO CRIMINE COMMESSO SULLA POPOLAZIONE DEL SUD E COME TALE VA CONSIDERATO, RISPETTATO E PROTETTO.

CHE IL MUSEO DEL LOMBROSO DIVENTI META DI PELLEGRINAGGI, DI CELEBRAZIONI RELIGIOSE, DI INCONTRI DI PREGHIERA, DI MOMENTI DI RIFLESSIONE, DI RADUNI CON DEPOSIZIONI DI FIORI E DI CORONE. 

CHE IL MUSEO DEL LOMBROSO SIA ELEVATO AL RANGO DI SACRARIO. 



Qualche anno fa hanno riaperto il Museo di Antropologia Criminale “Cesare Lombroso” di Torino che, senza mezzi termini, è stato definito “IL MUSEO DEGLI ORRORI”.
Nel suo interno sono esposte alla pubblica macabra curiosità, membra umane per la maggior parte di soggetti non identificati, sicuramente contadini e pastori meridionali che, sommariamente definiti malviventi, furono uccisi e sezionati solo perché somiglianti a dei criminali precedentemente catalogati.
L’antico Regno delle Due Sicilie, cuore pulsante di quella cultura mediterranea proveniente dalla Magna Grecia, vera terra italiana, fu assoggettato dai conquistatori di quella piccola regione elevata a stato, qual era il Piemonte, e ridotto a poco più di una colonia.
Il Popolo Meridionale si ribellò a quella sanguinosa e devastante operazione militare comandata dai Savoia per annettere l’Italia al Piemonte e, pertanto, fu marchiato quale portatore di una “delinquenza atavica” dovuta ad una “inferiorità della specie propria della razza meridionale”. Per questa ragione la dilagante reazione popolare fu identificata come un’azione criminale e non come una sacrosanta legittima difesa.
Il Lombroso fu inviato nelle province meridionali a seguito delle truppe di invasione per individuare, “studiare” ed eliminare i soggetti dediti al ribellismo antipiemontese.
La sua teoria, tanto razzista e criminale quanto bislacca e approssimata, sosteneva che i malviventi avessero tratti del viso e della testa in comune, nonché precise e similari caratteristiche nel modo di vestire, di parlare, di agire e di scrivere. 
Il Lombroso, con quella incredibile catalogazione, non fece altro che registrare i caratteri fisici propri degli abitanti del Regno del Sud. Caratteristiche che furono, poi, strumentalmente utilizzate come elementi probatori della delinquenza e dell’essere inclini al delitto. Fu una vera e propria follia criminale e razzista che fece molte vittime tra la popolazione inerme: fu un nazismo ante litteram.
Infatti, in virtù di queste tesi, i soldati piemontesi operarono “condanne ed  esecuzioni per deduzione”, procedendo a raccapriccianti tagli e mutilazioni di teste e di arti, ingrossando giorno per giorno quel “deposito” di Torino destinato, poi, a diventare un museo.
Chiuso qualche decennio fa, quel Museo è stato riaperto in occasione del centocinquatenario suscitando proteste ed invettive soprattutto negli ambienti neomeridionalisti che ne hanno chiesto la chiusura.
Considerato che quanto viene “conservato” nel Museo del Lombroso SONO GLI UNICI RESTI MORTALI DEI BRIGANTI e, cioè, di coloro che furono gli ultimi strenui difensori di una cultura e di una nazione condannata a morte dal crudele invasore; visto che CERTI CRIMINI VANNO RESI PUBBLICI e mostrati alle nuove generazioni AFFINCHÉ MAI PIÙ ACCADANO SIMILI ATROCITÀ; convinti che è uno stesso crimine nasconderli favorendo l’oblio, RITENIAMO che quel cosiddetto museo è UNA FOSSA COMUNE DI VITTIME DI CRIMINI DI GUERRA E COME TALE SIA CONSIDERATO, RISPETTATO E PROTETTO.
Il Museo del Lombroso è l’ALTARE della Patria Meridionale dove sono conservati i resti ignoti dei Figli disgraziati di quella antica Terra conquistata, saccheggiata, vilipesa e cancellata dalla memoria dei libri e della gente.
Che quel luogo diventi la coscienza sporca di chi ancor oggi nega quella tragedia e non ancora si decide a chiedere perdono ad un intero Popolo condannato alla mortificazione sociale, culturale, politica ed economica.
Che quelle teche, stracolme di poveri resti umani, siano monito della efferatezza umana così come lo sono i campi di sterminio nazisti.

PERTANTO DICIAMO NO ALLA PAVENTATA CREMAZIONE DI QUEI RESTI UMANI E, NELLO STESSO TEMPO, CHIEDIAMO CHE IL MUSEO DEL LOMBROSO SIA ELEVATO A SACRARIO DI UN OLOCAUSTO ANCORA NEGATO.