IL RIFORMISTA del 19 marzo 2012
La storia negata
Racconti borbonici ma non revisionisti
Racconti borbonici ma non revisionisti
di
Federico Fornaro
In un “Regno che è stato grande” (Mondadori) Gianni Oliva affronta uno dei principali nodi della storiografia nazionale.
Lo scorso anno a margine delle celebrazioni ufficiali del 150° anniversario dell’Unità di Italia, ha preso corpo un fenomeno assolutamente originale: il fiorire di una pubblicistica “neo borbonica” fino ad allora relegata in ristretti circoli meridionali, nostalgici del tempo andato.
Si è così assistito, accanto a riletture attente (e depurate dalla retorica post risorgimentale) degli avvenimenti e delle conseguenze del processo di unificazione nelle regioni meridionali - per tutti il bel libro di Salvatore Lupo, L’unificazione italiana. Mezzogiorno, rivoluzione, guerra civile (Donzelli) - alla nascita di un filone revanscista, cantore dei fasti perduti del Regno delle Due Sicilie. Per un apparente, strano, scherzo del destino l’operazione revisionista pro-borbonica e quindi anti-unitaria, ha finito per saldarsi con quella - politicamente più schierata - di matrice verde leghista. A mettere a tacere i sostenitori (al Nord come al Sud) della tesi da bar che «sarebbe stato molto meglio se avessimo continuato a vivere divisi», basterebbe la rapida lettura di una breve raccolta di saggi pubblicata lo scorso anno da Marsilio, a cura di Pasquale Chessa, dal titolo Se Garibaldi avesse perso. Storia controfattuale dell’Unità d’Italia, in cui alcuni dei nostri migliori storici contemporaneisti (Berta, Cardini, Gentile, Isnenghi, Sabbatucci e il compianto Luciano Cafagna) non soltanto smontano l’impianto delle tesi revisioniste, ma dimostrano - dati alla mano - come tutte le alternative all’unificazione sarebbero state nettamente peggiori della pur travagliata storia patria dal 1861 ai giorni nostri.
A venirci in aiuto per comprendere meglio non tanto le ragioni di chi si opponeva al disegno unitario di Cavour e dei Savoia, ma piuttosto per rimettere al loro corretto posto nella storia d’Italia il regno dei Borboni, è adesso arrivato nelle librerie l’ultimo lavoro di Gianni Oliva, Un regno che è stato grande. La storia negata dei Borboni di Napoli e Sicilia (Mondadori).
Oliva affronta con il consueto equilibrio, uno dei principali nodi interpretativi della storiografia nazionale, provando a superare la diffidenza e l’ostracismo stratificatosi negli anni contro uno dei principali ostacoli sulla strada dell’affermazione del Risorgimento Italiano.
Come è giustamente ricordato nell’introduzione, infatti, l’immagine ufficiale trasmessa ai posteri del Sud prima dell’arrivo di Garibaldi e delle truppe liberatrici è stata quella di territori malgovernati da re inetti e reazionari, di un’economia arretrata e di una società ignorante e semifeudale. In altri termini, la modernità dell’impianto statuale sabaudo contrapposta al medioevo borbonico.
«Le ragioni di questa impostazione sono evidenti - spiega Gianni Oliva - per rappresentare il Risorgimento sabaudo come unica via al progresso e alla libertà, occorreva demonizzare gli avversari e costruire una memoria strumentale del passato, che condannasse i Borboni come figure antistoriche ed esaltasse i Savoia come i principi della patria liberale».
Lungi dal voler assumere un’ antistorica difesa delle ragioni dei Borboni, Oliva si pone, invece, l’obiettivo di ripulire l’immagine del Regno meridionale dalle incrostazioni negative della propaganda e della retorica risorgimentale, per dare - ci si conceda la battuta - «ai Borboni quello che è stato dei Borboni», evitando peraltro fuorvianti e strumentali operazioni di taglio revisionista e provando nel contempo, però, a porre giustamente rimedio alla damnatio memoriae che nella storia - da sempre - è imposta ai vinti dai vincitori. Il regno borbonico del Sud, sconfitto dalla diplomazia di Cavour e dal coraggio di Garibaldi, non merita, infatti, di essere ignorato. In un alterarsi di oscurantismo e aperture al nuovo, la dominazione borbonica sul meridione d’Italia, che inizia nel 1734 con la creazione di un regno indipendente affidato a Carlo di Borbone, figlio del re di Spagna Filippo V, infatti, ha segnato profondamente la cultura e l’idea stessa di Stato nel Sud del nostro Paese ed è, perciò, stato indubbiamente ingeneroso in questi decenni etichettare tutta la complessa fase post-invasione garibaldina come mera “lotta al brigantaggio meridionale”, dal momento che gli ostacoli oggetti all’affermazione di una convinta cultura dell’unificazione nazionale avevano radici profonde nel Sud del paese.
Nel 1861 un viaggiatore che si fosse recato nelle regioni meridionali avrebbe trovato di fronte a sé un quadro contradditorio, con vaste aree dominate dall’analfabetismo, l’arretratezza e il latifondo, che convivevano,però, con alcuni straordinari investimenti in infrastrutture (per tutti la prima tratta ferroviaria italiana, la Napoli-Portici, inaugurata nel 1839) e una struttura produttiva industriale con un accettabile livello di sviluppo.
Nell’interpretazione di Oliva, ciò che accade all’indomani del 1861 finì per tradire le attese - presenti anche in ampi settori della nascente opinione pubblica meridionale - di una “nazione” portatrice di un disegno strategico di lungo periodo capace di garantire sull’intero territorio del nuovo stato progresso civile e modernizzazione: un obiettivo da conseguire con un gigantesco sforzo di integrazione economica e sociale.
E invece - come annota criticamente l’autore - «Per tenere insieme regioni profondamente disomogenee tra loro lo Stato ricorre alla forza militare e a un rigido accentramento amministrativo, che penalizzano il Mezzogiorno e deludono le speranze che hanno accompagnato l’impresa garibaldina».
«Ma soprattutto - prosegue Oliva - per assicurarsi il controllo di un territorio inquieto dal punto di vista sociale, la nuova classe dirigente nazionale, si allea con quelle stesse forze che hanno frenato lo sforzo di ammodernamento dell’età borbonica, cooptandole nella gestione del potere».
Un processo riassunto con rara efficacia dalla famosissima frase pronunciata dal principe di Salina nel Gattopardo: «Bisogna cambiare tutto affinché non cambi nulla».
Quel che compie Oliva è, dunque, un lungo viaggio alla scoperta di pagine di storia colpevolmente oscurate e proprio per questo esposte al rischio di una rilettura in chiave revisionistica neo-borbonica, funzionali unicamente ad ambigue operazioni di rivalsa regionale, che provano a contrapporsi strumentalmente e per mere ragioni di consenso, all’artefatta costruzione di una tradizione storico-culturale unitaria della Padania leghista.
Proprio partendo dallo straordinario e per alcuni versi inatteso successo delle celebrazioni del 150° dell’Unità d’Italia, appare utile e necessaria l’apertura di una fase di riflessione storiografia per - sono parole di Gianni Oliva - «la restituzione dei Borboni all’onore della storia: con le loro contraddizioni, con le loro aperture e con loro rigidità. Sottrarre queste pagine al silenzio della vulgata nazionale è un modo per capire meglio il passato e per gettare luce sul presente, guardando al Mezzogiorno come risorsa e non come problema».