venerdì 13 gennaio 2012

Ruggero Guarini docet

Come faranno mai a vincere questa “guerra non dichiarata” i nemici della verità, i “fautori del mendacio”, i giornalisti “ciucci e venduti” se sul nostro Fronte ci sono arroccati personaggi del calibro di Lino Patruno, Pino Aprile, Gennaro De Crescenzo, Luciano Salera, Lorenzo Del Boca, Antonio Grano, Gigi Di Fiore ed, appunto, Ruggero Guarini, seguiti da una schiera ormai incalcolabile di scrittori e giornalisti, noti e meno noti, e di attivisti di ogni estrazione politica e sociale?
Dopo i colpi ben assestati dei giorni scorsi, arriva il nostro Ruggero che completa l’opera con un “ripasso” di storia e di politica sui vari quotidiani chiudendo alla grande la settimana appena dopo l’anno dei festeggiamenti e delle celebrazioni centocinquantenarie.
Anche in questo caso la soddisfazione è tanta e la gratitudine è immensa.
   
Cap. Alessandro Romano



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 Quando Dostoevskij bocciò l’Italia Una

di
Ruggero Guarini

      Ora che con la fine dell’anno appena defunto si è concluso anche il programma dei festeggiamenti per il 150° anniversario della nascita dell’Italia Una sarà forse consentito ricordare che quel lieto evento poté sembrare un disastro non soltanto a molti nobili spiriti del nostro Mezzogiorno (vedi quel grande storico che fu Giacinto De Sivo, che sullo spirito del nostro Risorgimento scrisse a botta calda pagine strepitose), e talvolta persino ad alcuni dei suoi massimi artefici (vedi la ormai celebre lettera in cui Garibaldi, nel 1868, scrivendo all’amica Adelaide, riconobbe che la sua impresa, nel nostro Sud, aveva “cagionato solo squallore e suscitato solo odio»), ma sembrò tale persino a qualche geniale testimone forestiero. Il più lucido dei quali fu, probabilmente, Dostoevsvkij.
       Quello scrittore quasi profetico in rebus politicis derise infatti la nascita dell’Italia Una in uno dei tanti  articoli che scrisse per “Il Cittadino”, la rivista a cui collaborò fino alla morte. L’articolo uscì nel giugno del 1878. Ma dove e quando il giudiziom cje vi è espresso prese forma nella mente del suo autore? Durante il suo primo soggiorno italiano, nel 1862? O forse durante il secondo, nel 1868, quando si spinse fino a Napoli?
      Anche questa domanda, come quasi tutte quelle mi pongo da anni sull’argomento, nasce dall’incontro nella mia zucca di un fatto del giorno con qualche mio antico ricordo. In questo caso, il fatto del giorno è la lettura delle ultime fiere esternazioni patriottiche racchiuse nell’ultimo discorso del nostro Presidente. Il vecchio ricordo mi rimanda invece al moto di lieta sorpresa che il citato beffardo giudizio di Dostoevskij mi procurò il giorno in cui, tanti anni fa, sfogliando la bella edizione italiana, curata per la Sansoni da Ettore Lo Gatto, del “Diario di uno scrittore”, mi imbattei per caso nella pagina che lo racchiude.
     In quale delle tante città in cui soggiornò nel corso di quei due viaggi – Torino, Roma, Napoli o Firenze, dove fra l’altro scrisse L'idiota – Dostoevskij scoprì dunque che l’Italia Una non gli piaceva affatto? Quali suoi aspetti gli sembrarono particolarmente molesti e irritanti? E con quali nostri spiriti del tempo ebbe nodo di esprimere e discutere i motivi della sua ripulsa, per non dire del suo disgusto? Non so se all’argomento sia stata mai dedicata la necessaria attenzione. Ecco intanto il passo principale dell’articolo con cui l’autore dei “Fratelli Karamazoff” liquidò l’imprersa del conte di Cavour:
      «Per duemila anni l’Italia ha portato in sé un’idea universale capace di riunire il mondo, non una qualunque idea astratta, non la speculazione di una mente di gabinetto, ma un’idea reale, organica, frutto della vita della nazione, frutto della vita del mondo: l’idea dell’unione di tutto il mondo, da principio quella romana antica, poi la papale. I popoli cresciuti e scomparsi in questi due millenni e mezzo in Italia comprendevano che erano i portatori di un’idea universale, e quando non lo comprendevano, lo sentivano e lo presentivano. La scienza, l’arte, tutto si rivestiva e penetrava di questo significato mondiale. Ammettiamo pure che questa idea mondiale, alla fine, si era logorata, stremata ed esaurita (ma è stato proprio così?) ma che cosa è venuto al suo posto, per che cosa possiamo congratularci con l’Italia, che cosa ha ottenuto di meglio dopo la diplomazia del conte di Cavour? È sorto un piccolo regno di second’ordine, che ha perduto qualsiasi pretesa di valore mondiale, [...] un regno soddisfatto della sua unità, che non significa letteralmente nulla, un’unità meccanica e non spirituale (cioè non l’unità mondiale di una volta) e per di più pieno di debiti non pagati e soprattutto soddisfatto del suo essere un regno di second’ordine. Ecco quel che ne è derivato, ecco la creazione del conte di Cavour!».
     Alla lettura di questo passo può essere utile aggiungere quella delle pagine che in un vecchio, ottimo libro di Ettore Lo Gatto (“Russi in Italia”, Roma, Editori Riuniti, 1971) riguardano appunto i soggiorni italiani di Dostoevskij.

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FISIMARIO

Nuovi e vecchi giudizi sul cardinale Ruffo

di
Ruggero Guarini



      In una recente ricostruzione della storia della famiglia Ruffo di Calabria (Domenico Gioffré: “La gran casa dei Ruffo di Bagnara”, edizioni Equi-libri), nel capitolo dedicato al cardinale Fabrizio Ruffo, si può leggere, fra l’altro, un equilibrato giudizio sul vano tentativo compiuto dall’autore dell’impresa sanfedista di sottrarre al loro tragico destino i capi della Repubblica Partenopea.
      È noto come andarono le cose. Giunto con la sua armata alle porte di Napoli, il cardinale ricevé più volte, dalla corte borbonica rifugiata a Palermo, ordini scritti in cui lo si diffidava dal concedere ai giacobini sconfitti un onorevole patto di resa. Ma il cardinale, considerando ormai prossima la caduta della città, prima che arrivassero altri espliciti ordini contrari, intraprese ugualmente trattative volte a indurre i giacobini a sottoscrivere una capitolazione che offriva loro la possibilità di sfuggire alle pene previste per la loro impresa imbarcandosi per la Francia.
      A questo punto, quando l’accordo era già stato sottoscritto e accettato anche dai comandanti delle truppe regolari presenti all'assedio della città (comandanti delle navi inglesi e di alcuni contingenti russi e turchi), Ferdinando IV e Carolina, forti dell'appoggio dell'ammiraglio inglese Orazio Nelson inglese, esautorarono il cardinale dal comando. Quindi Nelson, appena giunto in rada, annullò le clausole del trattato già stipulato. E al cardinale, minacciato persino di arresto, toccò di dover  assistere impotente a quelle esecuzioni che aveva tentato invano di scongiurare.
      Ovviamente – commenta Gioffrè – Ferdinando e Carolina non capirono che con tutte quelle messe a morte avrebbero trasformato i giacobini napoletani in martiri. E osserva che “forse non sbagliava il cardinale Ruffo quando sosteneva che il perdono sarebbe stato la migliore politica”. Giudizio ormai accettato, com’è noto, anche dalla migliore storiografia antiborbonica, nonché perfettamente conforme al mirabile ritratto che di quella geniale figura di porporato, di politico e di condottiero fu abbozzato in quella che resta, a mio sommesso parere, la pagina più toccante che sia stata scritta su di lui.
      «Eppure – si dice in questa pagina – noi intraprendiamo uno strano assunto, quello cioè di provare che fin qui il Cardinale Ruffo è stato calunniato dalla Storia, o meglio dagli storici: noi speriamo riuscirvi; e ciò come si comprende, per puro amore del vero. Diciamo cosa fosse in quell'epoca il Cardinale Ruffo, il quale tra non molto diverrà uno degli eroi più coraggiosi di quei disgraziati tempi, in cui tutti coloro che parteggiavano per la corte eran ritenuti come completamente privi di senso morale, d'onor nazionale e di diritto delle genti. Non si creda che noi ci lasciamo trascinare dall'amore del paradosso. Chi leggerà vedrà e sopra tutto giudicherà».
      E ancora vi si aggiunge: «La nostra parzialità consiste a non volere che l’uomo di genio, di semplice audacia se volete, che ha concepito il piano della restaurazione di Ferdinando I, che ha varcato lo stretto con tre mila ducati, un luogotenente del Re, un segretario, un cappellano, un cameriere, un domestico, che ha messo il piede in Catona, in mezzo a trecento insorti, che ha traversata tutta la Calabria, combattendo per una causa ingiusta, ma, infine combattendo tuttavia, che è arrivato a Napoli con 60 mila uomini, che fino all’ultimo momento ha difeso la capitolazione firmata da lui, e che è caduto in disgrazia del Re, che doveagli il proprio regno, per aver propugnato contro Nelson, Acton, e Carolina, i diritti dell’umanità, venisse trattato come un Pronio, uno Sciarpa, un Mammone, un Fra Diavolo».
      L’autore di questo mirabile elogio non è uno storico. È un grande scrittore. È Alessandro Dumas. E benché egli fosse di gusti giacobini, non esitò a infilarla nella sua vivacissima "Storia dei Borbone di Napoli". Della quale credo si trovo ancora in commercio qualche copia della bella traduzione italiana edita in due volumi edita da Marotta & Marotta nel 2002.

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CARA POLITICONA
di
Ruggero Guarini


La Stampa ci informa che gli italiani, nel 2011, hanno speso 76,5 miliardi di euro, in media più di 1.200 a persona, per lotterie, gratta e vinci e scommesse. Con un aumento di circa 250 euro a persona rispetto all’anno precedente. Il Paese è in recessione e si ha meno denaro, ma si spende di più per tentare la fortuna. Secondo la giornalista, ciò indica che “milioni di italiani ripongano maggiore fiducia nella fortuna come mezzo per risollevare le proprie sorti piuttosto che nelle loro capacità o in quelle dei loro governanti”. Indubbiamente c’è del vero, in questa spiegazione, ma non è la sola.
In primo luogo, è stupefacente che si possa sperare nei governanti per risollevare le proprie sorti. Questa è un’idea assurda. Tutto ciò che i governanti possono fare per la prosperità dei cittadini è “non fare nulla che gli impedisca di essere prosperi”. Lo Stato non ha il dovere, e neanche la possibilità, di offrire ai cittadini la ricchezza in confezione regalo; al contrario, dovendo fornire dei servizi essenziali, sarà sempre lui a chiedere ai cittadini una parte della loro ricchezza.
Da noi invece i cittadini hanno la speranza di riuscire a tassare lo Stato: con un posto nell’Amministrazione pubblica (uno stipendio in cambio di poco, a volte in cambio di niente); una pensione solo perché poveri, vecchi o malati; un sussidio di disoccupazione e cure mediche perfette, per tutti e gratuite. Questo atteggiamento demenziale è stato incoraggiato dai politici che, contraendo debiti per un totale di 1.900 miliardi di euro (come non cessano di ricordarci i mercati finanziari) hanno fatto contenti i cittadini ed hanno alimentato per decenni questa mentalità deviata.
Uno Stato ben ordinato fornisce i servizi essenziali e solo quelli; li amministra in modo razionale, evitando accuratamente gli sperperi e mantiene bassa la pressione fiscale, in modo da incoraggiare le attività economiche. Ecco il modo in cui può “risollevare le sorti” dei cittadini. Non tanto facendo qualcosa per loro, dunque, quanto mantenendo un basso profilo e pesando poco. Tutto l’opposto di ciò che è avvenuto ed avviene in Italia.
Questo stato di cose, durato troppo a lungo, ha sregolato i cervelli. Lo sganciamento del denaro dal lavoro ha indotto molte persone a credere che si può ottenerne un po’ col lavoro, ma il grande denaro si consegue – oltre che con la corruzione - essendo grandi calciatori, grandi cantanti, grandi attori o partecipando a giochi in televisione. Ma una constatazione si impone subito: non tutti sono bravi a calciare una palla, incantare una platea o risolvere un quiz. Molti, poverini, non hanno neanche la possibilità di farsi corrompere e l’unica possibilità che rimane, per arricchirsi senza sforzo e senza merito, è la lotteria. Poco importa che i competenti avvertano che il gioco è scorretto. Che il mazziere bara. Che l’unico che vince è costantemente il banco. Quanto più le cose vanno male, tanto più ci si rivolge al caso benevolo. Perché benessere e malessere dipendono dalla fortuna più o meno grande che si ha. E allora bisogna tenerle la porta aperta.
Questa mentalità ha riflessi negativi anche in politica. Se i cittadini perdono il contatto con la piatta aritmetica economica, se abbandonano la realtà in favore del sogno, divengono i bersagli ideali della demagogia. Solo un Paese di analfabeti economici può sognare di uscire dalla miseria andando ad impadronirsi dei beni dei “ricchi”: e tuttavia proprio questo promettono alcuni partiti. Solo un Paese di analfabeti economici poteva credere che fosse “generoso e sociale”, e non “demente e criminale”, uno Stato che creava il nostro colossale debito pubblico. E solo un popolo poco intelligente poteva considerare uno iettatore chi, in quegli anni lontani, avvertiva del pericolo.
Ora siamo al dramma, e non sappiamo se e come ne usciremo. E qual è la soluzione? Vincere all’Enalotto.     
Cari giovani indignados napoletani che oggi parteciperete alla grande protesta alla piazzaiola organizzata dal vostro movimento su scala nazionale – ma voi siete davvero convinti che la vostra rabbia di incazzati in servizio permanente effettivo possa servire a risolvere soltanto uno degli innumerevoli problemi che si aggrovigliano in quell’enorme garbuglio che è la presente crisi mondiale?
      A incoraggiarvi a coltivare questa candida convinzione provvede naturalmente un’ardentissima brama di protagonismo politico. Accoppiata, naturalmente, a una profonda passione contestatrice e riformatrice. E soprattutto condita da una ancor più toccante persuasione: la certezza di rappresentare, in questo mondo di merda, la giustizia, la virtù, l’amore, la saggezza, il bene, la morale, la ragione e simili. Sono infine sicuri di essere anche molto intelligenti e originali. Ho tuttavia la vaga sensazione che fra le vostre idee non se ne trovi nemmeno una che non provenga da quell’immensa discarica di illusioni in cui la storia non cessa di rovesciare gli avanzi delle varie ideologie che da due secoli e rotti infuriano nel mondo occidentale.
      La più commovente delle vostre passioni è comunque la vostra fede nel potere salvifico della politica. Ossia di un idolo che tutti voi, se foste davvero quei draghi del pensiero che immaginano di essere, anziché mettere al primo posto, dovreste piuttosto cercare di mettere al posto suo, rivolgendole magari questo discorsetto:
      «Cara Politicona – dunque sei tornata a gongolare. Per farlo ti è bastato questo intoppo della crisi finanziaria planetaria. Dalla quale ti auguri che scaturiscano effetti abbastanza devastanti da incoraggiare i tuoi fan a tentare di restituirti quel preteso primato che negli ultimi trent’anni, grazie a una lunga stagione di crescita economica mondiale, nonché all’epilogo catastrofico del più gagliardo esperimento politico di tutti i tempi, avevi, se Dio vuole, in gran parte perduto.   
      «Ma come ti permetti ancora oggi di rivendicare un qualsiasi primato nella vita e nella storia dell’umanità quando nessuna delle conquiste che attraverso i secoli e i millenni hanno continuamente migliorato e allietato l'esistenza umana ricreandone incessantemente le forme può essere attribuita a te? Hai forse inventato tu il fuoco, la cucina, la tessitura, l’agricoltura? E l’architettura, la ruota, la scrittura? E l’orologio, la lente, la stampa, il telescopio, la pila? E il telegrafo, il telefono, il treno, l’automobile, l’aeroplano? E la fotografia, il cinema, la radio, la televisione, il computer, il cellulare? E la balestra, la fionda, la cerbottana, il boomerang, il fucile e la bomba atomica? E i lassativi, le supposte, l’aspirina, i sulfamidici, gli antibiotici? E il commercio, l’industria, il denaro, il credito, la banca? E la musica, l’arte, la poesia, la religione, il teatro? E la ruota, la palla, lo specchio, la trottola e i dadi?
      «Ma va là, fanfarona che non sei altro! Tu non hai mai inventato un tubo. Non hai inventato nemmeno i pennarelli con cui oggi noi indignados scribacchieremo i nostri slogan, nemmeno le tastiere e le chitarre che  strimpelleremo fra un comizi etto e l’altro, nemmeno i megafoni con cui intensificheremo il suono delle nostre voci di pubblici rompicoglioni, nemmeno gli i-Phone e gli i-Pad con cui cercheremo anche oggi di mantenerci in contatto fra di noi e col mondo. Figuriamoci se potrai essere tu a inventare quella rivoluzione davvero epocale che presto, come abbiamo letto anche noi giorni fa, sconvolgerà il mondo della produzione e del lavoro mediante quell’ultima diavoleria che sono le nanotecnologie studiate oggi negli Usa.. Di quale primato vai dunque vaneggiando e sproloquiando?
      «Il solo primato che puoi rivendicare è in effetti quello dei disastri e delle infamie che riesci a provocare tutte le volte che io mi diverto a soddisfare per qualche tempo la tua pazza voglia di affermare questo tuo primato immaginario più o meno su tutti e su tutto. Pensa per esempio ai primati che raggiungesti nel XVIII secolo quando ti permisi di affermare la tua creatività rivoluzionaria col metodo Terrore & Ghigliottina. O quando quegli eccelsi fautori del tuo primato che furono i capi dei regimi totalitari inventarono il lager e il gulag. O a quelli che puoi sbandierare da secoli nel mondo islamico, dove lo strapotere di una politica che si confonde con la religione, mentre impedisce a quei paesi di avanzare sulla strada della democrazia e della libertà, gli assicura il primato nel ramo stragi e massacri.
      «E adesso spiegaci, ti prego, quali nuovi effetti di questa specie ti proponi di scodellare non appena avrai riconquistato, incitandoci a indignarci, quel primato a cui tieni tanto».