Intervista
“Nelle stragi di mafia le maggiori zone
d’ombra della nostra storia”
Edoardo Petti
Fra le varie zone d’ombra della storia italiana quelle dei rapporti con Cosa
Nostra «sono le più diffuse, poiché le stragi dei primi anni Novanta
rappresentano il culmine della storia secolare di un legame torbido fra
istituzioni nazionali e realtà economico-sociali arretrate» dice a
Linkiesta Sergio Luzzatto, professore di Storia moderna all’Università di
Torino. «Realtà che avrebbero potuto essere profondamente differenti
[...] se il Mezzogiorno avesse dovuto partecipare alla lotta di liberazione con
il Nord».
Capaci
21
luglio 2012 - 12:11
Il Risorgimento e la lotta contro il brigantaggio. La stagione del fascismo e
la guerra di liberazione che fu anche scontro mortale fra partigiani e militanti
di Salò. Le pagine più oscure e sanguinose dell’esperienza repubblicana, dalle
stragi agli anni di piombo. E gli eccidi perpetrati dalla criminalità mafiosa
nel drammatico biennio 1992-1993, su cui solo recentemente si cominciano a
profilare responsabilità e connivenze di apparati dello Stato. Il nostro Paese
sembra soffrire ancora oggi della mancanza di una memoria storica condivisa, o
almeno della tensione collettiva verso la ricerca della verità. Tutti i passaggi
cruciali e tragici dall’Unità in poi costituiscono solo il terreno di uno
scontro fazioso, partigiano e ideologico, spesso funzionale alle polemiche
contingenti. Per questa ragione abbiamo pensato di coinvolgere Sergio Luzzatto,
professore di Storia moderna all’Università di Torino, nonché studioso della
Rivoluzione francese e delle problematiche legate al revisionismo fiorito negli
ultimi anni sui temi della Resistenza e dell’antifascismo.
Perché sui capitoli decisivi e più delicati della storia nazionale
manca una memoria condivisa?
Esiste una grande confusione riguardo
alla categoria della memoria comune. Vorrei operare una distinzione che negli
ultimi venti anni è venuta meno. Si tratta della differenza fra storia e
ricordo. La storia è condivisa per definizione, anche se non la vogliamo e non
la amiamo: è semplicemente “ciò che è accaduto”, come osservava lo studioso
tedesco Leopold Ranke, sia pure in modo problematico e sempre da verificare. La
memoria comune invece non può e, a mio giudizio, non deve esistere. Pensi al
fenomeno della lotta al brigantaggio all’indomani dell’Unità d’Italia, in realtà
una guerra civile tra autorità ed esercito sabaudo da una parte e ampi strati
del ceto dirigente e della popolazione meridionale dall’altra. Perché i fautori
e gli estimatori di un processo di unificazione realizzato anche con la forza
dovrebbero maturare una visione identica a quella coltivata da coloro che si
sentono aggrediti e depredati da una campagna di occupazione? Così è impensabile
che si affermi una prospettiva comune attorno a temi come il “biennio rosso”
1919-1921, la nascita e l’affermazione del fascismo, la guerra di liberazione e
il conflitto civile del 1943-1945.
Però il nostro Paese soffre di una allergia cronica alla ricerca
della verità.
È vero. Ma gli ostacoli e le difficoltà che si
frappongono alla tensione verso la conoscenza della verità storica dipendono da
una ragione tecnica e normativa, che tocca il cuore del nostro mestiere.
Accedere ai documenti pubblici oggi è possibile cinquanta anni dopo la loro
stesura, e per le carte private ne sono necessari settanta. Una ricerca
storiografica completa e approfondita richiede decenni. Riguardo ai fenomeni di
criminalità mafiosa e terroristica, agli storici rimangono le attività delle
commissioni parlamentari di indagine, che possono conoscere, esaminare, valutare
e rendere pubblici gli atti consultati. Ma il nostro lavoro è ben diverso da
quello dei magistrati e dei giudici, i quali devono accertare la verità per
affermare la giustizia e ripristinare i diritti di chi è stato ingiustamente
colpito. Uno storico non ha il compito di distinguere i colpevoli dagli
innocenti.
Gli ostacoli a un rapporto profondo e onesto con la verità non sono
di natura politica e ideologica?
Senza dubbio sono presenti freni di
questo genere, ma non in misura maggiore rispetto agli altri paesi democratici.
Gli Stati Uniti delle menzogne sull’omicidio di J.F.Kennedy, sulle
responsabilità per gli attacchi dell’11 Settembre, sull’orrore di Guantanamo,
sono stati così diversi dal modo di agire del potere italiano? E lo è stata la
Francia repubblicana che per decenni ha rimosso le torture e i crimini
perpetrati contro la popolazione dell’Algeria in lotta per l’indipendenza, o
l’infamia del regime collaborazionista di Vichy? Le spiegazioni troppo generiche
non mi soddisfano mai: e l’immagine di un potere continuamente, pervicacemente e
diabolicamente impegnato per impedire la ricerca delle verità mi appare una
scorciatoia superficiale. Lo dico perché più volte la magistratura italiana ha
cercato di conservare la dignità del proprio mandato, e le commissioni
parlamentari di inchiesta hanno saputo operare spesso con estremo rigore.
Esistono pagine della nostra esperienza comune ancora poco illuminate
dall’indagine degli storici, e dunque più esposte alle lacerazioni e
deformazioni ideologiche?
Attorno ai nodi più delicati della storia
compresa tra l’Unità e la Liberazione dal nazifascismo, le fonti documentali
sono divenute sempre più ricche e hanno consentito al lavoro storiografico di
raggiungere un livello di maturità e completezza notevole. Per cui oggi, anche
con il contributo delle opere ispirate al revisionismo sulla guerra partigiana,
possiamo affermare di avere maturato una consapevolezza e “un senso comune
storiografico”. Fattore ben diverso dalla memoria condivisa, che implica una
lettura interpretativa e una griglia di valori soggettive e parziali. Le aree
più opache e meritevoli di indagini scientifiche appartengono proprio alla
stagione repubblicana, a causa della disponibilità sporadica e tardiva dei
documenti. È un processo lungo e faticoso. Tuttavia, sulle strategie e sui
disegni che guidarono le stragi dal 1969 in poi e che ispirarono i crimini del
terrorismo nero e rosso, siamo pervenuti a un grado sufficientemente elevato di
consapevolezza.
E sugli eccidi compiuti da Cosa Nostra?
Qui le zone
d’ombra sono le più diffuse, poiché le stragi dei primi anni Novanta
rappresentano il culmine della storia secolare di un legame torbido fra
istituzioni nazionali e realtà economico-sociali arretrate. Realtà che avrebbero
potuto essere profondamente differenti, improntate alla capacità di autogoverno
e alla maturità civica, se il Mezzogiorno avesse dovuto partecipare alla lotta
di liberazione con il Nord. Ritengo comunque che gli storici dei prossimi
decenni individueranno nelle stragi del 1992 e nelle loro conseguenze un punto
di svolta epocale. Nel quale è contenuto un paradosso: grazie al sacrificio di
Giovanni Falcone e Paolo Borsellino la criminalità mafiosa divenne una vera
emergenza nazionale, ma negli ultimi venti anni le prime pagine dei giornali
hanno dedicato spazio ad altro. Sono gli anni in cui Roberto Saviano ha scritto
e denunciato l’orrore della camorra e della ‘ndrangheta che però, nello stesso
arco di tempo, hanno potuto prosperare sotto traccia. Fino a quando le nuove
indagini sui responsabili dell’eccidio di Via D’Amelio e sulla presunta
trattativa tra istituzioni e boss hanno aperto scenari inquietanti su quella
stagione.
Fonte: LINKIESTA del 3 agosto 2012