Editoriale
Quando la camorra aiutò Garibaldi in nome della libertà di delinquere.
La recente ristampa delle Memorie di un garibaldino russo di Lev Illic Mecnikov, a cura di Renato Risaliti (Centro interuniversitario di ricerche sul viaggio in Italia, pagg. 330, euro 29) ci offre una testimonianza meno oleografica e certo più autentica sull’impresa dei Mille. Secondo Mecnikov, infatti, fu solo grazie all’intervento della camorra (guidata dalla «sanguinaria» Marianna De Crescenzio, detta la Sangiovannara) se, il 7 settembre 1860, Garibaldi riuscì a entrare indisturbato a Napoli dove i membri della società criminale si erano assicurati il controllo delle zone strategiche della città, sgominando gli ultimi sostenitori dei Borbone.
Notizie ancora più dettagliate della conversione patriottica della camorra sono contenute nel volume del poligrafo di origine francese, Marc Monnier (La camorra o i misteri di Napoli, pubblicato a Firenze nel 1862). Secondo Monnier, fino alla metà del XIX secolo, l’organizzazione malavitosa aveva sottoscritto un patto scellerato con la polizia, collaborando con essa nella repressione dei piccoli reati, in cambio di una larga tolleranza nei confronti delle sue attività. La camorra, infatti, formava una specie di «polizia scismatica, meglio istruita sui delitti comuni della polizia ortodossa, che si occupava solo dei delitti politici». Se un furto veniva commesso nell’abitazione di un notabile, sosteneva Monnier, «il commissario convocava il capo dei camorristi e lo incaricava di trovare il ladro». Inoltre, la camorra era utilizzata nella «sorveglianza delle prigioni, dei mercati, delle bische, delle case di tolleranza e di tutti i luoghi malfamati della città».
L’intesa cordiale tra quella che amava definirsi la «Bella Società Riformata» e il sovrano delle Due Sicilie s’interruppe però dopo il 1849, quando Ferdinando II decise di avviare una sistematica opera di repressione contro i camorristi. Da quel momento, la camorra si trasformò in «camorra politica» che si pose al servizio del movimento liberale. Il 2 novembre 1859, il nuovo re delle Due Sicilie, Francesco II, era a tal punto intimorito dal pericolo costituito da questa «opposizione criminale» da riferire all’ambasciatore austriaco che tutti gli sforzi del suo governo erano concentrati a impedire che i suoi i capi organizzassero un’insurrezione.
Non si trattava di timori infondati. Nel giugno del 1860, il plenipotenziario inglese a Napoli, Henry George Elliot, informava il Foreign Office che numerose bande camorristiche erano pronte a scendere in campo per contrastare, armi alla mano, la mobilitazione della plebe ancora fedele alla dinastia borbonica. Proprio questo accadde, nei mesi seguenti, quando i membri dell’«onorata società» inquadrati nella «guardia cittadina» dal ministro di Polizia, Liborio Romano (ormai convertitosi alla causa dei Savoia), divennero i veri padroni della città in attesa dell’arrivo di Garibaldi. «Dopo aver reso questi servigi», scriveva Elliot, «i camorristi acquistarono una potenza e un’autorità spaventevole».
Notizie ancora più dettagliate della conversione patriottica della camorra sono contenute nel volume del poligrafo di origine francese, Marc Monnier (La camorra o i misteri di Napoli, pubblicato a Firenze nel 1862). Secondo Monnier, fino alla metà del XIX secolo, l’organizzazione malavitosa aveva sottoscritto un patto scellerato con la polizia, collaborando con essa nella repressione dei piccoli reati, in cambio di una larga tolleranza nei confronti delle sue attività. La camorra, infatti, formava una specie di «polizia scismatica, meglio istruita sui delitti comuni della polizia ortodossa, che si occupava solo dei delitti politici». Se un furto veniva commesso nell’abitazione di un notabile, sosteneva Monnier, «il commissario convocava il capo dei camorristi e lo incaricava di trovare il ladro». Inoltre, la camorra era utilizzata nella «sorveglianza delle prigioni, dei mercati, delle bische, delle case di tolleranza e di tutti i luoghi malfamati della città».
L’intesa cordiale tra quella che amava definirsi la «Bella Società Riformata» e il sovrano delle Due Sicilie s’interruppe però dopo il 1849, quando Ferdinando II decise di avviare una sistematica opera di repressione contro i camorristi. Da quel momento, la camorra si trasformò in «camorra politica» che si pose al servizio del movimento liberale. Il 2 novembre 1859, il nuovo re delle Due Sicilie, Francesco II, era a tal punto intimorito dal pericolo costituito da questa «opposizione criminale» da riferire all’ambasciatore austriaco che tutti gli sforzi del suo governo erano concentrati a impedire che i suoi i capi organizzassero un’insurrezione.
Non si trattava di timori infondati. Nel giugno del 1860, il plenipotenziario inglese a Napoli, Henry George Elliot, informava il Foreign Office che numerose bande camorristiche erano pronte a scendere in campo per contrastare, armi alla mano, la mobilitazione della plebe ancora fedele alla dinastia borbonica. Proprio questo accadde, nei mesi seguenti, quando i membri dell’«onorata società» inquadrati nella «guardia cittadina» dal ministro di Polizia, Liborio Romano (ormai convertitosi alla causa dei Savoia), divennero i veri padroni della città in attesa dell’arrivo di Garibaldi. «Dopo aver reso questi servigi», scriveva Elliot, «i camorristi acquistarono una potenza e un’autorità spaventevole».