Lo strano caso dell'Inno Borbonico di Giuseppe Verdi
di Antonio Parisi
di Antonio Parisi
L’affetto per Verdi è antico. Le sue arie, i suoi cori e alcune sue musiche si sono talmente imposte da entrare a far parte del sentire collettivo.
Oggi nel clima rievocativo determinato dalle celebrazioni per i 150 anni dell’Unità d’Italia, le note verdiane commuovono ed esaltano in maniera particolare. Infatti la musica verdiana ha caratterizzato, per molti versi, la società ottocentesca divenendo uno dei simboli più potenti che hanno accompagnato l’epopea risorgimentale.
Tanta è la forza immaginifica delle melodie di Verdi che molti, a più riprese, hanno proposto il brano, "Va pensiero", tratto dall’opera Nabucco, quale inno nazionale della nostra Repubblica al posto di quello di Mameli.
Stessa cosa per Umberto Bossi e ampi settori della Lega Nord che vedono nel “Va pensiero” una sorta di bandiera musicale del loro movimento e della nazione padana. Dunque le musiche di Verdi esaltano in egual misura sia chi continua a sostenere l’unità politica e culturale del nostro Paese sia quanti vorrebbero una autonomia se non una vera e propria secessione da parte delle regioni del Nord italia dalla Patria comune.
Anche nel 1848, ai tempi dei Moti e della prima Guerra di Indipendenza, accadde qualcosa di simile: le musiche di Verdi vennero usate dai mazziniani ma anche dai borbonici. A Napoli, infatti, apparve pubblicato dall’editore musicale Girard (uno dei più importanti dell’epoca) un Inno Nazionale del Regno delle Due Sicilie, intitolato “La Patria”, dedicato a Ferdinando II di Borbone, e per la cui musica fu utilizzato il famoso motivo “Si risvegli il leon di Castiglia” tratto da Ernani che Verdi aveva composto qualche anno prima.
Lo spartito di questo singolare inno, le cui parole sono di Michele Cucciniello, è da sempre custodito a Napoli nell’importante Biblioteca del Conservatorio di San Pietro a Majella ed anima una sorta di “giallo” musicale.
Ci si domanda, infatti, se Verdi, all’epoca simpatizzante di Mazzini, avesse autorizzato un simile impiego della sua musica per l’esaltazione del Regno borbonico oppure se qualcuno avesse voluto approfittare della popolarità delle note di Ernani per usarle ad insaputa del suo compositore per celebrare la monarchia delle Due Sicilie.
I pareri non sono del tutto unanimi anche perché al di fuori dell’unica copia esistente dello spartito, nessuno scritto di Verdi o altro documento storico accenna all’esistenza dell’Inno e alla sua musica.
Noi abbiamo voluto cercare di capire, attraverso l’ascolto di storici ed esperti, come stiano realmente le cose.
Il primo a parlare è Roberto De Simone, compositore, regista e musicista tra i più conosciuti in Europa, già direttore artistico del Teatro San Carlo e che del Conservatorio di Napoli è stato direttore per molti anni. Fu lui a rendere pubblica l’esistenza della composizione “borbonica” con musiche di Verdi.
“Lo spartito - informa De Simone – era conosciuto da anni all’interno del Conservatorio, dove sono custoditi autentici tesori verdiani tra cui lettere e biglietti autografi del maestro. Quando divenni direttore di San Pietro a Majella pensai di far conoscere all’esterno questa curiosità. Tante volte mi sono domandato se fosse mai possibile che Verdi patriota e mazziniano potesse aver dato il consenso all’utilizzo della sua musica per un inno borbonico. Mi domando però come sia possibile che il Maestro non abbia fatto una smentita".
Forse, Verdi non volle fare polemiche.
“ E’ possibile – risponde De Simone – d’altra parte l’amore per le musiche di Verdi era fortissimo e persino le parodie delle sue opere ottenevano successo. Famose erano quelle fatte da Antonio Petito, re dei Pulcinella, alle cui rappresentazioni anche Verdi sembra essersi divertito molto. Circa lo spartito di cui stiamo parlando, per me da musicologo – finisce De Simone – rimane comunque la curiosità verso un documento che è testimone di un’epoca complessa come fu quella risorgimentale.”
Alcune delle opinioni di De Simone ci sono confermate durante la nostra visita al conservatorio di Napoli da Francesco Melisi direttore della biblioteca che ci mostra il tanto controverso Inno.
“Verdi – dice Melisi- era pignolo e ogni sua composizione era accompagnata da scritti e precisazioni. Il musicista, che era molto legato al nostro conservatorio, promise in regalo una composizione per la nostra istituzione.
A questo punto non ci resta che sentire l’opinione di quello che è considerato il massimo esperto vivente dell’opera di Verdi, Pier Luigi Petrobelli, direttore dell’Istituto Nazionale di Studi Verdiani a Parma e docente di Storia della Musica all’Università La Sapienza di Roma.
“Verdi non sapeva nulla di quest’inno- dichiara perentorio Petrobelli-. Si tratta di un falso confezionato nel 1848. In quei mesi Verdi era a Parigi da dove solo nel 1849 tornò in Italia per recarsi a Roma dove c’era la Repubblica Romana e dove fu eseguita al teatro Argentina, tra le ovazioni e l’entusiasmo sfrenato della folla, la prima de La battaglia di Legnano i cui contenuti patriottici sono forti.
Della questione sono al corrente anche i neoborbonici che per voce del loro coordinatore nazionale, Alessandro Romano, si dicono perplessi. “Noi siamo legati all’inno al Re scritto da Paisiello – dice Romano - Non sarei contento se fosse confermata una volontà da parte di Verdi di musicare i versi di Cucciniello. Non lo vedo un Verdi borbonico".
Non tutti però escludono la consapevolezza di Verdi. Per esempio lo storico del risorgimento Alessandro A. Mola, pensa che in un momento in cui il Re delle due Sicilie, aveva concesso la costituzione e aveva mandato i suoi reggimenti a sostegno di Carlo Alberto di Savoia contro gli austriaci, Verdi non se la sia sentita di imporre a Girard di ritirare la composizione comunque stampata senza un suo consenso formale.