per ingrandire cliccare sul documento
venerdì 29 giugno 2012
giovedì 28 giugno 2012
mercoledì 27 giugno 2012
Il Principe Carlo di Borbone in visita a Napoli
Come ampiamente preannunciato attraverso questa Rete e tutti i siti ad essa collegati, si è tenuta a Napoli ed in Campania la visita dell’augusta Famiglia Reale, nostro orgoglio e nostra forza identitaria.
L’accoglienza riservata ai Principi dalla nostra Gente è stata come di consueto delle più calorose. Nel pomeriggio del 25, prima della celebrazione eucaristica per l’investitura dei nuovi cavalieri, nel sagrato della Basilica di Santa Chiara ad attendere Carlo, Camilla e le principessine c’erano gli attivisti del Movimento e la Banda Musicale dei “Reali Pompieri” napoletani che, schierati in alta uniforme storica, hanno intonato l’Inno Reale commuovendo tutti i presenti e gli stessi Principi.
Poi nella chiesa la celebrazione solenne.
Alleghiamo il comunicato del Movimento, alcune foto dell’evento ed un articolo-intervista pubblicato dal Corriere del Mezzogiorno che dà un’idea corretta del forte sentimento di appartenenza che anima la coppia Reale.
-------------------------
MOVIMENTO NEOBORBONICO
Comunicato
Nel cortile i Neoborbonici hanno salutato il loro arrivo con la Fanfara dei Vigili del Fuoco del Comando Provinciale di Napoli guidati dal Maestro Lettiero e da Roberto Cantagallo e Filippo Mosca: 40 musicisti in perfetta divisa dei pompieri di epoca borbonica che hanno eseguito (nella commozione dei Principi e dei presenti) l’inno nazionale delle Due Sicilie di Giovanni Paisiello.
Il presidente De Crescenzo, con numerosi delegati e dirigenti, ha regalato alle piccole Maria Carolina e Maria Chiara, a nome del Movimento Neoborbonico, due cammei lavorati, “simbolo dei primati produttivi duosiciliani, portafortuna senza tempo e tradizionale dono del Popolo Napoletano presso la corte borbonica, fusione del mondo naturale, vegetale e animale del nostro antico Regno”.
------------------------------------------------------------------------------
CORRIERE DEL MEZZOGIORNO
del 26 giugno 2012
La
visita dei reali
Dall'Albergo dei Poveri a
Carditello:
le amarezze del principe di Borbone
Carlo
e Camilla a Napoli con le figlie: «Basterebbe
poco per il rilancio»
NAPOLI — E' stata una giornata frenetica quella di
ieri per Carlo e Camilla di Borbone. Il principe e la principessa delle Due
Sicilie sono da qualche giorno in Campania per una serie di appuntamenti
istituzionali e privati. La delegazione regionale del Sacro Ordine Costantiniano
di San Giorgio, guidata da Pierluigi Sanfelice di Bagnoli, ha svolto un lavoro
puntuale che ha preceduto l'arrivo dei Borbone che si sono spostati fra Caserta,
Capri, Salerno e Napoli per incontri pubblici, investiture, cerimonie ufficiali.
Il primo degli impegni di ieri, il conferimento dell'onorificenza di
Commendatore del Sacro Ordine Militare Costantiniano di San Giorgio al primo
cittadino di Salerno, Vincenzo De Luca. «Ho trovato un sindaco combattente —
racconta il principe —. Molto deciso. Ha saputo dare a Salerno tanti primati,
fra cui quello della raccolta differenziata. E poi ho visto un Lungomare molto
più bello dell'ultima volta che sono stato a Salerno, almeno dieci anni fa. Sono
rimasto colpito».
E Napoli come l'ha trovata dalla sua ultima
visita?
«Un po' migliorata. C'è meno immondizia e poi il fatto che ci siano
meno auto sul Lungomare credo aiuterà il turismo».
Altezza, lei parlava di primati. Ma quelli che al Sud sono stati
garantiti dai Borbone sembrano persi nella memoria. Pietrarsa è dimenticata,
Palazzo Reale versa in condizioni difficili, il real Sito di Carditello è
all'asta e la Villa comunale non ricorda neanche da lontano la passeggiata
Borbonica...
«Fra queste cose mettiamoci anche l'Albergo dei Poveri, una
istituzione importante realizzata dai Borbone che è lì, dimenticata. O il Real
Polverificio di Scafati, dove siamo stati un anno fa. Sono tutte situazioni
difficili e, mi creda, davvero brutte. Si parla solo della ferrovia
Napoli-Portici, ma ci sarebbe molto altro da difendere. Con mia moglie abbiamo
visto in televisione, da Parigi, che il sito di Carditello versa in una
situazione di degrado e che ora è in vendita, all'asta. Speriamo che lo Stato
eserciti il diritto di prelazione e si decida a porre un freno a questa incuria.
Mi rendo conto che tanto patrimonio artistico d'Italia è in una situazione
difficile. Ma basterebbe un progetto ben fatto per rilanciare non solo i siti
borbonici, ma tutto un impianto di grande valore culturale e dunque anche
turistico».
Lei cosa propone?
«Io di ogni sito farei un museo. Magari con cuna boutique vicino
per creare un indotto economico. Basta avere una visione. Per noi è difficile da
lontano fare cose concrete. Ma attraverso il ministero della Cultura, il
Governo, attraverso anche una serie di nostre conoscenze internazionali potremo
fare davvero molto ».
Da dove incomincerebbe?
«D'istinto, le direi che sarebbe auspicabile immaginare un percorso
dei primati del Sud. Potrebbe durare anche tre settimane, per turisti davvero
decisi a scoprire il Mezzogiorno. Però il progetto non basta. Ci vuole una
precisa volontà politica».
La
principessa Camilla interviene. «E'
una vergogna che non si possa apprezzare il valore di statue, piazze, monumenti
che sono tenuti male. Occorrerebbe un progetto che passasse per un business e
una serie di sinergie. Siamo tornati appena da Capri e lì tutto funziona perché
ci sono i meccanismi giusti, oltre ad una bellezza incontestabile. Mia figlia
Maria Carolina ha spento le candeline per il suo compleanno — caso unico al
mondo — nella Grotta azzurra. E credo che le bambine non dimenticheranno questo
evento. Così come non dimenticheranno la Reggia di Caserta. Ogni sito, se
valorizzato nella giusta luce, ha un grande valore. La Puglia, ad esempio, è
piena di tesori che non sono mai stati posti davvero in evidenza. E tutto può
fare gioco in questo progetto. Magari anche rilanciare il Sud attraverso la sua
cucina chiamando uno chef come Alain Ducasse, coinvolgendo così il turismo
internazionale di alto livello. Sa che le stoffe di San Leucio che abbiamo nel
nostro appartamento di Parigi lasciano senza fiato tutti i nostri ospiti? Però
non bastano i progetti che siano così così. Abbiamo pranzato con l'ammiraglio
della Nato, Clingan, che ci ha raccontato come Gaeta sia fragile. Al centro di
un progetto di recupero bello, che non ha però solide
fondamenta».
Principe, ma il Comune di Napoli l'ha mai coinvolta in qualche
modo, magari nella individuazione di una
strategia?
«Al di là di un mio legame viscerale con Napoli, profondissimo, non
sono mai stato coinvolto per contribuire in qualche modo concreto. Forse c'è una
sorta di timidezza. Si pensa che chiamando noi vada riletta la storia. E' forse
un blocco. Noi non vogliamo criticare la situazione attuale, né proporre una
rilettura della storia. Ma siamo pronti ad affrontare progetti e a ragionare
sulle proposte. Per chi porta questo cognome è doveroso. I miei antenati hanno
fatto tanto e io, se ne avessi la possibilità e senza dare fastidio ad alcuno,
potrei a mia volta fare molto».
La principessa tempo fa aveva parlato di un suo possibile ruolo di
ambasciatore culturale del Mezzogiorno.
«Certo, ma senza alcun interesse personale. Solo per il dovere che
anima un Borbone».
Fra i tanti siti borbonici ce n'è uno che le sta più a
cuore?
«Questa è davvero una domanda difficile. A Santa Chiara sono
sepolti i miei genitori e Maria Chiara è il nome che abbiamo dato anche alla
nostra seconda bambina. Capodimonte è un luogo straordinario, peraltro ben
tenuto. Lì c'è tutta l'eredità Farnese. Poi La Reggia di Caserta, che la mia
primogenita ha chiesto di visitare come unico dono per il suo compleanno. Poi
San Leucio, modello esemplare di una organizzazione sociale, e l'albergo dei
Poveri, una istituzione all'epoca all'avanguardia. Un luogo gigantesco che ora
si è perso nei meandri di mille amministrazioni diverse. Si poteva fare, come
avevamo progettato una decina d'anni fa, un luogo per studiosi, con valenze
diverse. Eravamo pronti anche con borse di studio. Ma è tutto finito nel nulla.
La verità è che si potrebbe ripartire dai siti borbonici per mettere insieme una
meccanismo virtuoso fra pubblico e privato».
Altezza, da appassionato di vela, come giudica le regate ospitate a
Napoli?
«Le ho seguite da lontano, eravamo impegnati all'estero. E sono
compiaciuto del fatto che Napoli sia stata protagonista su tutte le televisioni
del mondo. Certo queste manifestazioni, come la Formula 1, arrivano come in una
scatola. Il pacco viene aperto e, quando tutto è finito, riportano via ogni
cosa, senza lasciar nulla al territorio.
Il prossimo anno, però, mi piacerebbe esserci».
Anna Paola Merone
sabato 23 giugno 2012
I Principi Borbone in visita a Napoli
Il Principe Carlo di Borbone e la sua Famiglia sono in visita a Caserta e a Napoli. Sono previsti incontri con autorità, Cavalieri dell’Ordine Costantiniano, vertici dei maggiori consessi identitari e gente comune.
La Redazione ed il Movimento Neoborbonico augurano ai nostri Principi una serena e piacevole permanenza nell’antica Capitale.
__________________
venerdì 22 giugno 2012
lunedì 18 giugno 2012
L'inno di Mameli
L'INNO DI MAMELI
NON E' MAI STATO L'INNO UFFICIALE DEGLI ITALIANI
di
Ignazio Coppola
Continuano senza soluzioni di continuità i fischi in occasioni delle recenti manifestazioni sportive: la coppa Italia “Napoli –Juventus”, disputatasi qualche settimana fa a Roma, e “Italia – Spagna” di questi ultimi giorni.
Contestazioni all’inno di Mameli che hanno suscitato l’indignata protesta prima del presidente del Senato Renato Schifani e poi del presidente del Coni Gianni Petrucci ed ancora del presidente federale Giancarlo Abete e, per finire, del ministro del turismo Piero Gnudi i quali, “indignati” all’unisono, si sono affrettati ad affermare che i copiosi fischi piovuti all’indirizzo dell’inno nazionale sono incivili, inaccettabili, frutto di comportamenti beceri sotto tutte le latitudini di persone irresponsabili che non si rendono conto del danno che provocano con questi comportamenti frutto della loro ignoranza. Ebbene non risulta che altrettanta indignazione e sconcerto il presidente Schifani e i suoi sodali abbiano mai manifestato in passato quando i leghisti, per lunghi anni alleati del governo Berlusconi, in più occasioni non facevano altro che irridere e fischiare l’inno nazionale manifestando, poi, di volere, come spesso era uso ripetere Bossi, fare un uso poco igienico del tricolore. Affermazioni e dileggi che da parte di questi signori, che oggi si indignano, passavano, allora con la Lega al governo per opportunità e per amor di quieto vivere, sotto un silenzio permeato da tanta ipocrisia. Ma tant’è ed al proposito a questi indignati dell’ultima ora, e per colmare la loro ignoranza, di cui tanto saccentemente tacciano gli altri, vale bene ricordare che l’inno di Mameli non è mai stato l’inno ufficiale della Repubblica Italiana bensì un inno ufficioso o, per meglio dire, “precario” come del resto lo è la maggior parte di tutto ciò che avviene in questo nostro Paese.
A ben vedere, per quanto infatti diremo, il “precario” e ufficioso inno di Mameli si può definire a buon diritto l’inno che la Massoneria impose alle nascente Repubblica Italiana nel lontano 1946 in sostituzione della “Marcia Reale” che aveva caratterizzato il precedente periodo monarco-fascista.
Vi siete mai chiesti perché il nostro inno nazionale inizia con la parola “fratelli”? E, su questo, vi siete mai dati una risposta? “Fratelli d’Italia l’Italia s’è desta” queste infatti sono le prime parole dell’inno di Mameli. Un inno di chiara connotazione massonica musicato da Michele Novaro e scritto, nell’autunno del 1847, dal “fratello” Goffredo Mameli ( al quale, a riprova della sua appartenenza e devozione ai liberi muratori, sarà poi dedicata a futura memoria una loggia) che, non a caso e da buon “framassone”, lo fa iniziare con la sintomatica e significativa parola “fratelli”. Un inno scritto dal “ fratello “ Goffredo Mameli nel 1848 e riproposto un secolo dopo, il 12 ottobre 1946, da un altro “fratello”, il ministro delle guerra dell’allora Governo De Gasperi, il repubblicano Cipriano Facchinetti, da sempre ai vertice della Massoneria, con la carica di Primo sorvegliante nel Consiglio dell’Ordine del Grande Oriente d’Italia e affiliato alla loggia “Eugenio Chiesa””. Fu in quella data dell’ottobre del 1946, che Facchinetti, quale ministro della guerra, impose che l’inno fosse suonato in occasione del giuramento delle Forze Armate. E da quel momento “Fratelli d’Italia” divenne, come lo è tuttora,” de facto” l’inno ufficioso della Repubblica Italiana. Ufficioso e provvisorio, perché mai “ de iure” istituzionalizzato con alcun decreto e ancor di più, perché non contemplato dalla nostra Carta costituzionale come lo è sancita, dall’ articolo 12 della stessa Carta costituzionale, l’istituzione del tricolore come bandiera nazionale. Un inno che rimane, pertanto, per le cose dette, ancora ad oggi, privo di ogni ruolo e di ogni qualsivoglia definizione istituzionale.
Da quanto argomentato si può altresì facilmente desumere che l’inno degli italiani fu un inno, nella sua lunga gestazione, fortemente voluto dai massoni che tanta parte, come sappiamo, ebbero nelle vicende che portarono ad una mal digerita unità d’Italia. Fu immediatamente dopo l’unità d’Italia che il Sud si “ destò” e si accorse, sulla propria pelle e a proprie spese, di che pasta erano fatti i “fratelli” che erano venuti a “liberarlo”. E forse proprio nel ricordo di tutto questo, di una mal digerita unità d’Italia che ancor più si appalesa a danno dei meridionali, sempre più ricorrenti negli ultimi tempi piovono i fischi sull’ufficioso e “precario” inno nazionale.
E alla luce di quanto detto coloro che oggi si indignano ipocritamente e a convenienza dovrebbero di tutto questo, prendendone atto, loro malgrado farsene una ragione.
Goffredo Mameli
L'inno degli italiani - originale
COMUNICATO STAMPA
PARLAMENTO DELLE DUE SICILIE – PARLAMENTO DEL SUD
e
MOVIMENTO NEOBORBONICO
Inno italiano imposto a scuola: i Neoborbonici si appellano alla Corte Europea.
Il “Parlamento delle Due Sicilie”, gruppo di azione civico-culturale, ha inviato alla Commissione e alla Corte di Giustizia Europea una denuncia contro il progetto di legge appena passato alla Camera e relativo all’insegnamento obbligatorio dell’inno di Mameli nelle scuole elementari italiane.
Nel dossier inviato a Luxembourg (Corte di Giustizia dell’Unione Europea) e a Bruxelles (Segreteria Generale Commissione Comunità Europee) si evidenziano alcuni aspetti della delicata questione qui riportati in sintesi.
Il testo sarebbe incompatibile con la “Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea” quando sancisce che “I popoli europei nel creare tra loro un’unione sempre più stretta hanno deciso di condividere un futuro di pace fondato su valori comuni”: i suoi versi (“Già l’Aquila d’Austria/le penne ha perdute./Il sangue d’Italia,/Il sangue Polacco,/Bevé, col cosacco,/Ma il cor le bruciò”) esaltano, infatti, le azioni imperialiste dell’Impero Romano (topos ereditato tal quale dal Fascismo) fomentando l’odio contro uno Stato sovranazionale, quale era allora l’Impero austriaco, esaltando la guerra e l’odio etnico (al contrario di tutti gli altri inni dell’Unione Europea).
La legge, inoltre, è in contrasto con gli articoli 10 e 11 della stessa Carta (relativi alla libertà di coscienza, alla libertà di pensiero, alla libertà di opinione e a quella di “di ricevere o di comunicare informazioni o idee senza che vi possa essere ingerenza da parte delle autorità pubbliche e senza limiti di frontiera”): l’indottrinamento politico e antidemocratico veicolato dalla legge in questione va contro la libertà di pensiero e ciò sarebbe tanto più grave in una fase della storia italiana come quella che stiamo vivendo, nella quale è forte e fecondo il dibattito sul Risorgimento e sui suoi limiti non più occultabili e soprattutto riferibili ai danni materiali e morali subiti dalle popolazioni dell’ex Regno delle Due Sicilie in termini di massacri, saccheggi e colonizzazioni, con sviluppi ancora drammaticamente attuali se solo si pensa a questioni meridionali famose ma sempre più dimenticate.
In questo senso l’imposizione della marcia di Mameli e Novaro va poi contro il successivo articolo 22: “L’Unione rispetta la diversità culturale, religiosa, linguistica”. Ciò risulta evidente da quanto è stato scritto: i popoli e gruppi di persone qui descritte non si riconoscono nei miti patriottici propri dell’Inno di Mameli e saranno costretti ad accettarli.
L’Inno di Mameli, infine, sfrutta diversi falsi storici, usati per scopi di propaganda militaresca dal regime totalitario che dominò l’Italia per vent’anni. In nessun modo, dunque, esso può rappresentare istanze di libertà e di democrazia e a maggior ragione non deve assolutamente essere imposto ai nostri bambini (e non ai “Balilla” citati nell’inno).
I ricorrenti, pertanto, domandano alle Istituzioni in indirizzo di intervenire affinché il Governo italiano non dia corso all’approvazione di questo progetto di legge già al centro di numerose polemiche.
ALLEGATO DOSSIER INTEGRALE A CURA DELLA COMMISSIONE CULTURA E ISTRUZIONE DEL “PARLAMENTO DELLE DUE SICILIE”
Ufficio Stampa 347 8492762
www.parlamentoduesicilie.it
www.neoborbonici.it
domenica 17 giugno 2012
Il debito pubblico italiano - Parte Seconda
Note storiche sul debito pubblico italiano
Dal secondo dopoguerra, alla crisi attuale
- seconda parte -
- seconda parte -
del
Prof. Alessandro Volpi
(Università di Pisa)
(Università di Pisa)
Il dopoguerra e gli anni d’oro.
Dopo la guerra il brusco contenimento del debito dipese in larghissima misura dalla svalutazione della lira: essendo finanziato e denominato in lire, il crollo del valore della lira fece precipitare anche il valore complessivo del debito che passò dal 92 per cento del Pil nel 1944 al 40 nel 1946 per un valore totale di circa 750 milioni di euro. Negli anni successivi, fino al 1963, le dinamiche del debito furono contenute da vari fattori. Inizialmente ebbero un effetto positivo gli aiuti del Piano Marshall, insieme ad ulteriori prestiti forzosi, come quello della "ricostruzione" avviato dal ministro Soleri. Risultarono poi molto importanti il tasso di crescita annua del Pil, che rimase per tutto il periodo sopra il 5 per cento, e la possibilità di finanziare il debito ad un tasso d'interesse inferiore rispetto al tasso d'inflazione. Continuavano ad operare anche i vincoli alla circolazione dei capitali, mentre la Banca d'Italia svolgeva le funzioni di prestatore di ultima istanza anche per lo Stato, stampando carta moneta. Comune era parimenti la prassi dei pagamenti differiti che consentiva di contabilizzare le uscite in più annate, con benefiche conseguenze sul debito. Fra il 1946 e il 1961 il Tesoro fece ampio ricorso ai prestiti redimibili con bassi tassi e un sovrapprezzo obbligato per i compratori che subirono così una vera e propria imposizione fiscale. Nel 1958 fu creato un Fondo ad hoc per procedere alla sostituzione del debito in scadenza, mentre cresceva rapidamente il peso degli acquisti bancari dei buoni del Tesoro, passati dal 58 per cento del totale nel 1947 al 91 nel 1961: una crescita dettata dalla possibilità sancita dalla Banca d'Italia di utilizzare da parte delle banche i buoni del Tesoro come riserva obbligatoria. In questo senso, lo Stato, attraverso l’emissione di carta moneta finalizzata all’acquisto di titoli del debito e mediante l’azione delle banche che erano in larghissima misura di proprietà pubblica, procedeva a trasformare il debito pubblico in debito nei confronti dello Stato stesso: in estrema sintesi si assisteva alla situazione molto particolare di uno Stato indebitato con se stesso. La gestione del debito, attuata con molteplici strumenti, lo aveva fatto crescere senza farlo esplodere, riducendo anzi sensibilmente il suo rapporto con il Pil grazie all’aumento costante di quest’ultimo e ai bassi tassi di interesse. In termini quantitativi era passato da 1,2 miliardi di euro nel 1947 a 4,6 nel 1963, a fronte di un rapporto con il Pil che dal 40 per cento era sceso fino a poco sopra il 32%, una percentuale decisamente virtuosa.
Il quadro iniziò a cambiare dopo il 1963, quando la crescita del paese rallentò in maniera vistosa e la lira cominciò a perdere progressivamente valore rispetto alle altre monete internazionali. Cresceva con forte intensità anche la spesa pubblica – 10 punti di Pil in poco meno di 15 anni - nel suo insieme che a partire dai primi anni Settanta partoriva un saldo negativo del bilancio pubblico superiore al 10% annuo, mentre le entrate fiscali, in nome delle strategie del consenso, andavano riducendosi con rapidità. In tal senso pesava la mancata realizzazione di una riforma fiscale dopo il primo tentativo di Ezio Vanoni. Gli elementi che impedivano la deflagrazione della crisi debitoria erano costituiti dal permanere di tassi di interesse inferiori al tasso di inflazione che era decisamente galoppante, e dunque continuava a svalutare il complesso del debito, e dai vincoli alla circolazione dei capitali, per effetto dei quali i titoli del debito pubblica italiano potevano continuare a disporre di compratori “nazionali”, banche e risparmiatori.
La prima crisi.
Questa crisi scoppiò a partire dagli anni Ottanta allorché intervennero alcune modificazioni di ordine strutturale sia sul piano interno che su quello internazionale e che ebbero come effetto più evidente l’insostenibilità in termini di tassi di interesse del costo del debito. Il primo dato, in realtà in sostanziale continuità con quanto accaduto nel corso del decennio precedente, ma con dimensioni decisamente maggiori, fu rappresentato dalla crescita della spesa pubblica che arrivò nel 1985 a superare il 55% del Prodotto interno lordo. Si trattava però di una spesa il cui incremento dipendeva in maniera sempre più rilevante proprio dal già ricordato peso degli interessi. Lo stock di debito primario infatti aumentava assai meno della media europea mentre gli interessi esplodevano tanto da arrivare nel 1994 a rappresentare il 12 per cento del Prodotto interno lordo, una vera e propria cifra astronomica. Una simile lievitazione degli interessi si legava direttamente alla liberalizzazione dei flussi di capitale e alla politica monetaria avviata negli Stati Uniti con la presidenza Reagan costruita su alti tassi di interesse per attrarre gli investitori esteri che iniziarono così ad abbandonare i titoli di Stato dei propri paesi. Contestualmente a ciò, la scelta adottata nel 1981 dal ministro Andreatta e dal governatore Ciampi di rimuovere l’obbligo per la Banca d’Italia di acquistare le partite di debito italiano rimaste invendute rese ancora più complesso il collocamento dei titoli del nostro paese che dipesero da un mercato internazionale dominato da tassi assai alti, di fatto proibitivi per l’Italia già caratterizzata da un debito molto importante. Così il rapporto tra debito e Pil salì vertiginosamente dal 60 per cento circa del 1980 al 124 per cento del 1994, sfondando ogni soglia di sostenibilità e passando in termini quantitativi da 144 miliardi nel 1980 a quasi 1100 miliardi di euro nel 1994. Lo stato di salute delle finanze pubbliche era reso peggiore poi dalla assoluta insufficienza delle entrate fiscali, con una pressione che nel 1985 era pari soltanto al 34,6 per cento del Pil contro una media europea del 41 per cento, e dal rapido dilagare dell’evasione e dell’elusione fiscale, pari negli anni Ottanta al 25% dei redditi imponibili da lavoro dipendente e del 60 per cento per i redditi d’impresa. Brusco incremento del conto interessi, dovuto alla “concorrenza” del debito di altri paesi, scomparsa delle coperture garantite dalla Banca d’Italia e basso prelievo fiscale scatenarono dunque la prima grande crisi del debito italiano.
L’euro e la seconda crisi.
L’avvio del percorso di ingresso nella moneta unica, sancito a Maastricht nel 1992, permise di arginare il tracollo. Per rispettare i parametri imposti dai trattati infatti furono varate leggi finanziarie molto pesanti che ridussero tra il 1994 e il 2001 l’indebitamento delle pubbliche amministrazioni di quasi 8 punti, ricostituendo l’avanzo primario che fu nel 1997 pari al 6,6%, più che doppio rispetto alla media europea. Ciò permise di riportare il rapporto tra deficit e Pil, che nel 1992 era di poco inferiore al 12 per cento, sotto la soglia del 3% richiesto dai vincoli di Maastricht; un risultato in larga misura ottenuto grazie alla riduzioni degli interessi, scesi sia per l’“ombrello” europeo sia per la politica monetaria statunitense fortemente espansiva e caratterizzata da tassi assai bassi, a dimostrazione di quanto, con la globalizzazione, le dinamiche dei debiti nazionali dipendessero moltissimo dal contesto internazionale. Una minore influenza sul miglioramento dei conti pubblici ebbe l’aumento delle entrate che fu comunque assai limitato nel periodo già ricordato 1994-2001, dopo aver conosciuto invece una significativa crescita tra il 1985 e il 1994, salendo dal 34,6 al 40% del Pil. Nonostante le due ondate di massicce privatizzazioni, avvenute a fine anni Ottanta e a fine anni Novanta, per circa 95 miliardi di euro, il rapporto tra debito e Pil scese poco fino al 2000, restando ancora al 110 per cento anche a causa di una sostanziale scomparsa dell’inflazione che impediva la svalutazione del debito stesso. In termini assoluti, il debito pubblico italiano era pari in quell’anno a poco più di 1350 miliardi di euro.
Un miglioramento più sensibile si ebbe dopo il varo dell’euro nel 2002. L’utilizzo della moneta comune consentì una riduzione ancora più marcata del costo degli interessi sul debito dal momento che l’Italia poteva finanziarsi ad un tasso molto simile a quello della Germania e della Francia. Cresceva parallelamente la pressione fiscale che nel periodo 2006-2009 è stata pari al 43% del Pil, dopo essere stata vicina al 40% nel 1995 e al 42 nel 2000; un dato questo, che favoriva la formazione di avanzi primari. Tese a ridursi di conseguenza il rapporto debito-Pil che arrivò al 103 per cento nel 2004, rimanendo a livelli simili fino al 2007. Non diminuiva invece la massa del debito complessivo perché il basso costo del suo finanziamento non venne utilizzato in maniera incisiva per la riduzione dello stock primario che salì dai 1400 miliardi del 2004 ai 1600 del 2007 in una panorama ancora caratterizzato da bassa inflazione.
La crisi del 2008 ha provocato una profonda trasformazione del quadro del debito, avviandone in modo repentino la seconda crisi, dopo quella della fine degli anni Ottanta. In questo nuovo scenario risultava determinante la fortissima concorrenza tra i vari debiti sovrani innescata dallo spostamento del carico del debito dai soggetti privati, banche e assicurazioni in primis, in direzione delle finanze degli Stati. Per reperire le risorse per i salvataggi, numerosi paesi hanno fatto ricorso ai mercati internazionali, intasandoli di partite di debito che hanno scatenato un rialzo dei tassi di interesse richiesti dai compratori A tale rialzo si sono associate poi colossali tendenze speculative che hanno aggravato il fenomeno con la conseguente dilatazione degli spread, dei differenziali in termini di tassi di interesse fra paesi più fragili e più indebitati e paesi più solidi. Davanti ad un simile fenomeno, la protezione della moneta unica non è bastata più e il debito italiano ha ripreso a correre di nuovo per effetto del costo degli interessi che sono passati dai 40 miliardi di euro del 2007 ai 70 del 2010 e ai circa 80 del 2011. Il debito è tornato ad essere così il 106% del Pil nel 2008, il 116 nel 2009 e il 120 nel 2011, per un ammontare totale vicino ai 1900 miliardi di euro in un panorama dell’Eurozona dove il rapporto debito-Pil è cresciuto ancora maggiormente passando dal 70 per cento del 2008 all’88,6 del 2011.
venerdì 15 giugno 2012
Il debito pubblico italiano
Note storiche sul debito pubblico italiano
Il debito pubblico italiano dall'Unità d'Italia al secondo dopoguerra
- prima parte -
- prima parte -
del
Prof. Alessandro Volpi
(Università di Pisa)
(Università di Pisa)
Un paese storicamente indebitato, questa la formula sintetica che riassume una vicenda plurisecolare. Tracciare una breve storia del debito pubblico italiano può essere molto utile per cogliere alcuni elementi che hanno spesso caratterizzato e condizionato la vita del nostro paese, consentendo al tempo stesso di capire meglio la peculiarità specifica, e drammatica, del quadro attuale.
Una definizione del debito.
In primo luogo è necessario fornire una definizione del debito pubblico, che può essere costituita dalla somma delle passività nelle seguenti categorie di strumenti finanziari: 1) biglietti, monete e depositi, 2) titoli diversi dalle azioni, con esclusione degli strumenti finanziari derivati, 3) prestiti.
In realtà, all’inizio della vicenda del debito pubblico italiano esisteva un’articolazione interna di tale aggregato composta dal debito consolidato - che rappresentava un debito di fatto irredimibile per cui lo Stato si impegnava a pagare gli interessi, riservandosi la facoltà di restituire il capitale se e quando lo avesse ritenuto opportuno mediante il riscatto dei titoli al prezzo corrente di mercato - debito redimibile e debito fluttuante. Fino alla conclusione della prima guerra mondiale il debito consolidato costituì la principale componente del debito pubblico italiano (oltre il 60% contro il 40% del fluttuante) per divenire assolutamente minoritaria nel secondo dopoguerra quando il fluttuante arrivò rapidamente all’80%.
Il settore di riferimento era quello delle Amministrazioni pubbliche composte dalle Amministrazioni centrali dello Stato, diversi dagli Enti di previdenza, con l’inclusione invece di alcune aziende di Stato, come le Ferrovie, i Monopoli di Stato, le Poste e telegrafi, i Servizi telefonici, dalle Amministrazioni locali, comprese le Camere di Commercio, le Asl, le Università, gli Enti di previdenza e di assistenza.
Il periodo post unitario. Dai debiti pregressi alla crisi di fine secolo.
La prima fase di vita del Regno d’Italia, quella degli anni della Destra e della Sinistra storica, dunque fino al 1887 ha visto il riconoscimento dei debiti pregressi degli Stati preunitari con l’istituzione nel luglio 1861 del Gran libro del debito pubblico ad opera del ministro delle Finanze Pietro Bastogi, a cui si sarebbe aggiunto il riconoscimento del debito del Veneto nel 1866 e dell’ex stato pontificio nel 1871. La ragione di tale scelta, di riconoscere i debiti pregressi, era di ordine politico ed economico. In termini politici lo Stato italiano era troppo fragile per poter permettersi una cancellazione dei debiti preesistenti, peraltro in parte in mano della alta banca francese che aveva avuto un ruolo importante nel finanziare Napoleone III, principale alleato del Regno di Sardegna, e del conte di Cavour. In questo senso alcuni osservatori, sulla scorta di quanto aveva scritto Francesco Saverio Nitti, videro nel riconoscimento da parte del neonato Regno d’Italia dei debiti pregressi un chiaro beneficio a favore proprio dell’ex Regno di Sardegna che aveva un carico debitorio assai maggiore rispetto ad altri Stati italiani, come il Regno delle Due Sicilie (oltre il 57% del nuovo debito italiano proveniva dal Regno di Sardegna conto il 29,4 del Regno delle Due Sicilie). In termini economici il riconoscimento dei debiti pregressi, oltre che semplificare la gestione dell’indebitamento preesistente se non fosse stato cancellato, consentiva al nuovo Regno di continuare ad avere accesso al mercato internazionale del credito. Una prima considerazione in questo senso appare opportuna: la cancellazione dei debiti pregressi, contratti da dinastie regnanti che erano state detronizzate, e dunque illegittimi e non dovuti da parte del nuovo Stato italiano – come rimarcarono in quegli anni numerosi esponenti del mondo democratico –, non fu portata a termine perché la Destra storica, e non solo, riteneva un simile atto destinato a privare il debito italiano di compratori esteri.
Del resto il collocamento dei titoli sul mercato era reso necessario da alcuni dati che sarebbero diventati strutturali nel corso del tempo.
l’incapacità delle entrate correnti di coprire le spese correnti; una copertura che fino al 1887 raramente superò il 50% a testimonianza di una scarsa incisività dell’azione fiscale, secondo un modello già concepito da Cavour per cui era meglio far crescere il debito piuttosto che il carico fiscale. Neppure l’introduzione della tassa sul macinato riuscì ad invertire in maniera determinante questa tendenza.
La forte crescita della spesa pubblica, dettata in questa fase, ed anche nei successivi anni della Sinistra storica, dalle spese per le ferrovie, nonostante il regime privatistico delle concessioni, dalle spese di guerra, delle spedizioni coloniali e dai salvataggi di numerosi enti locali travolti da bancarotte in genere legate ad operazioni edilizie.
Il peso degli interessi sul debito che incontrava significative difficoltà ad essere collocato rispetto al debito pubblico inglese, nei confronti del quale pagava uno spread di oltre 700 punti. La massa degli interessi era in gran parte pagata – circa il 75% - a Parigi e a Londra, a conferma del ruolo decisivo dei compratori esteri.
La più generale volontà di utilizzare il debito come lo strumento per garantire il consenso all'azione governativa, evitando di utilizzare la leva fiscale soprattutto per porre in essere iniziative non gradite all'opinione pubblica.
In questa fase il rapporto tra debito - salito da 1,7 milioni (in euro al 2002) del 1861 ai 6,5 del 1887 - e Pil passò dal 45% nel 1861 al 96% nel 1870 per scendere intorno al 70% negli anni immediatamente seguenti e per risalire con estrema rapidità ben sopra il 90% a metà anni ottanta e a raggiungere il 104% nel 1887. Di fronte a simili difficoltà lo Stato italiano cercò di porre in essere alcune strategie di risposta. In primo luogo adoperandosi per lo sviluppo di un mercato finanziario che avesse la prerogativa di collocare i titoli del debito italiano, inizialmente venduti solo nelle principali Borse estere. In questo senso esiste uno stretto nesso fra la nascita delle borse italiane e il debito, un legame decisamente più forte rispetto a quello che si manifestò in altri paesi, così come, nel caso italiano, fu particolarmente marcata la concorrenza che l’alto rendimento dei titoli di Stato - 7-9% in media in questa fase - esercitò nei confronti degli impieghi azionari ed obbligazionari. In secondo luogo, lo Stato italiano decise fin da subito di “premiare” fiscalmente i titoli di Stato, garantendo loro un regime di privilegio, e rendimenti, appunto, significativamente alti anche attraverso prezzi di vendita molto bassi: un titolo con un valore nominale pari a 100 veniva venduto a 70. In terzo luogo, un posto centrale era riservato al sistema bancario, che fu indotto a più riprese a comprare titoli di Stato e ad accettarli come collaterali di garanzia per concedere prestiti. Nello specifico delle Casse di Risparmio, poi, l’acquisto di titoli emessi dagli Enti locali costituiva di fatto il core business principale. Infine, fu decisiva la politica monetaria che fin dall’inizio della vita dello Stato italiano si indirizzò, attraverso le banche di emissione, ancora spa private, a comprare partite importanti di debito, in alcuni momenti, come dopo l’introduzione del corso forzoso, utilizzabile anche per pagare le imposte e le tasse. Restò sempre determinante anche il ruolo dell’inflazione, le cui periodiche esplosioni, ebbero la capacità di ridurre artificiosamente il debito e quindi di migliorarne lo stato di salute, pur in condizioni di criticità economica. Non deve certo essere trascurato neppure l'imponente introito derivante dalla vendita dei beni del patrimonio ecclesiastico e demaniale che coinvolse per circa la meta' del totale terreni ed immobili posti nelle regioni meridionali. Gli anni compresi tra il 1887 e la fine del secolo non videro significativi cambiamenti nella gestione complessiva del debito anche se le spese statali furono in parte ridotte così da generare in alcune annate un avanzo primario. La dinamica negativa del debito dipendeva però dalla caduta del prodotto interno lordo e dal costo degli interessi che salirono rapidamente risultando quasi sempre più alti, in tale fase, rispetto ai livelli di crescita del paese. Il rapporto debito pil rimase così per tutti gli anni novanta intorno al 110 per cento, con una punta massima del 116 nel 1897, dopo il disastro di Adua e l'avvio della crisi di fine secolo, a dimostrazione evidente del legame già molto stretto tra dinamiche del debito e instabilità politica. In termini quantitativi, il debito, per quanto ai limiti della sostenibilità, era ancora di poco superiore agli 8 milioni di euro.
La forte crescita della spesa pubblica, dettata in questa fase, ed anche nei successivi anni della Sinistra storica, dalle spese per le ferrovie, nonostante il regime privatistico delle concessioni, dalle spese di guerra, delle spedizioni coloniali e dai salvataggi di numerosi enti locali travolti da bancarotte in genere legate ad operazioni edilizie.
Il peso degli interessi sul debito che incontrava significative difficoltà ad essere collocato rispetto al debito pubblico inglese, nei confronti del quale pagava uno spread di oltre 700 punti. La massa degli interessi era in gran parte pagata – circa il 75% - a Parigi e a Londra, a conferma del ruolo decisivo dei compratori esteri.
La più generale volontà di utilizzare il debito come lo strumento per garantire il consenso all'azione governativa, evitando di utilizzare la leva fiscale soprattutto per porre in essere iniziative non gradite all'opinione pubblica.
In questa fase il rapporto tra debito - salito da 1,7 milioni (in euro al 2002) del 1861 ai 6,5 del 1887 - e Pil passò dal 45% nel 1861 al 96% nel 1870 per scendere intorno al 70% negli anni immediatamente seguenti e per risalire con estrema rapidità ben sopra il 90% a metà anni ottanta e a raggiungere il 104% nel 1887. Di fronte a simili difficoltà lo Stato italiano cercò di porre in essere alcune strategie di risposta. In primo luogo adoperandosi per lo sviluppo di un mercato finanziario che avesse la prerogativa di collocare i titoli del debito italiano, inizialmente venduti solo nelle principali Borse estere. In questo senso esiste uno stretto nesso fra la nascita delle borse italiane e il debito, un legame decisamente più forte rispetto a quello che si manifestò in altri paesi, così come, nel caso italiano, fu particolarmente marcata la concorrenza che l’alto rendimento dei titoli di Stato - 7-9% in media in questa fase - esercitò nei confronti degli impieghi azionari ed obbligazionari. In secondo luogo, lo Stato italiano decise fin da subito di “premiare” fiscalmente i titoli di Stato, garantendo loro un regime di privilegio, e rendimenti, appunto, significativamente alti anche attraverso prezzi di vendita molto bassi: un titolo con un valore nominale pari a 100 veniva venduto a 70. In terzo luogo, un posto centrale era riservato al sistema bancario, che fu indotto a più riprese a comprare titoli di Stato e ad accettarli come collaterali di garanzia per concedere prestiti. Nello specifico delle Casse di Risparmio, poi, l’acquisto di titoli emessi dagli Enti locali costituiva di fatto il core business principale. Infine, fu decisiva la politica monetaria che fin dall’inizio della vita dello Stato italiano si indirizzò, attraverso le banche di emissione, ancora spa private, a comprare partite importanti di debito, in alcuni momenti, come dopo l’introduzione del corso forzoso, utilizzabile anche per pagare le imposte e le tasse. Restò sempre determinante anche il ruolo dell’inflazione, le cui periodiche esplosioni, ebbero la capacità di ridurre artificiosamente il debito e quindi di migliorarne lo stato di salute, pur in condizioni di criticità economica. Non deve certo essere trascurato neppure l'imponente introito derivante dalla vendita dei beni del patrimonio ecclesiastico e demaniale che coinvolse per circa la meta' del totale terreni ed immobili posti nelle regioni meridionali. Gli anni compresi tra il 1887 e la fine del secolo non videro significativi cambiamenti nella gestione complessiva del debito anche se le spese statali furono in parte ridotte così da generare in alcune annate un avanzo primario. La dinamica negativa del debito dipendeva però dalla caduta del prodotto interno lordo e dal costo degli interessi che salirono rapidamente risultando quasi sempre più alti, in tale fase, rispetto ai livelli di crescita del paese. Il rapporto debito pil rimase così per tutti gli anni novanta intorno al 110 per cento, con una punta massima del 116 nel 1897, dopo il disastro di Adua e l'avvio della crisi di fine secolo, a dimostrazione evidente del legame già molto stretto tra dinamiche del debito e instabilità politica. In termini quantitativi, il debito, per quanto ai limiti della sostenibilità, era ancora di poco superiore agli 8 milioni di euro.
Una temporanea sostenibilità e poi di nuovo il baratro.
A queste criticità fu posto parzialmente rimedio nel periodo giolittiano con una serie di misure di gestione del debito assai efficaci che poterono poggiarsi anche su una sensibile ripresa dell'economia nazionale. A prezzi 1938, per usare un'unita' di misura omogenea, il pil era cresciuto del 2,5 per cento nel periodo compreso tra il 1885 e il 1897 mentre crebbe del 58 per cento tra il 1897 e il 1913. Tale crescita permise il realizzarsi di una costante sequenza di avanzi di amministrazione intorno al 4 per cento annuo che non furono gravati dal costo degli interessi per le già ricordate misure di gestione del debito, il cui obiettivo fu appunto la riduzione degli interessi e l'allungamento della durata del debito italiano. Cosi tra il 1902 e il 1906 vennero realizzate alcune importanti operazioni di "conversione della rendita" che di fatto ristrutturarono gran parte del debito pubblico in maniera forzosa abbattendone i tassi di interesse al 3,5 e allungandone le scadenze: una vera e propria scelta unilaterale da parte del Tesoro che non pagava gli interessi promessi all'atto d'acquisto dei titoli e non rispettava i tempi previsti per il rimborso. Una simile forzatura fu resa possibile dal fatto che nel corso di quella fase si era realizzata una vera e propria " nazionalizzazione" del debito tanto che oltre il 90 per cento del debito italiano era in mani italiane: un fenomeno in larga misura connesso con le gigantesche rimesse degli emigranti che avevano scelto i titoli di Stato italiani come principale fonte di impiego dei loro risparmi. Grazie a tale "nazionalizzazione", gli spread sul debito inglese scesero a circa 300 punti e il rendimento al 3 per cento dei titoli italiani raffreddò la loro capacità di fare concorrenza ai titoli azionari ed obbligazionari, così da permettere il primo costituirsi, attorno alla neonata Borsa di Milano, di un mercato finanziario. Allo scoppio della prima guerra mondiale, il debito aveva raggiunto i 10 milioni di euro, con un rapporto debito-Pil che era crollato al 70 per cento, nonostante le spese sostenute per il conflitto in Libia. E' evidente che nel momento in cui gli interessi sono scesi per effetto della presenza di un debito nelle mani degli italiani con una dipendenza minima dai mercati internazionali la sostenibilità dell'indebitamento è divenuta possibile. La partecipazione alla prima guerra mondiale ebbe effetti devastanti per il debito italiano, portando il rapporto tra debito e Pil al 99 per cento nel 1918 e poi alla vertigine del 1920, quando raggiunse il massimo storico del 160 per cento. Questa esplosione, inizialmente contenuta dal sostegno finanziario degli alleati e dalla crescita del Pil conseguente allo sforzo bellico, avvenne nell'immediato dopoguerra per effetto della smobilitazione produttiva che segnò una caduta del reddito nazionale del 20 per cento e il determinarsi di disavanzi primari del 20 per cento rispetto allo stesso reddito. In tale contesto i titoli italiani furono oggetto di speculazione che trascinò i rendimenti al rialzo e contribuì ad aggravare la crisi delle banche, private della possibilità di finanziarsi a causa proprio della feroce concorrenza dei titoli di Stato. Per tentare di arginare il dissesto, il governo Nitti e poi quello di Giolitti introdussero alcune misure che avrebbero dovuto aumentare le entrate, adottando in particolare la nominatività dei titoli azionari e varie imposte patrimoniali che non riuscirono tuttavia ad arginare i tassi di interesse sul debito. Il problema vero era costituito dal fatto che durante la guerra la copertura delle spese correnti mediante i tributi crollò a meno del 20 per cento e le misure fiscali adottate puntarono a fare troppo rapidamente cassa, colpendo la stessa base imponibile. A pesare poi era il limitatissimo aumento del reddito disponibile, unito alla diminuzione della domanda interna e degli scambi internazionali. L'impennata dei tassi si legò anche alla necessità di collocare partite crescenti del debito italiano all'estero, in particolare in Gran Bretagna e negli Stati Uniti, con l'effetto di portare l'indebitamento estero ad un valore cinque volte superiore a quello delle esportazioni. Nel 1922 il debito estero eguagliava di fatto il debito interno.
L'avvento del fascismo vide il rapido smantellamento delle misure fiscali introdotte da Nitti e Giolitti, combinate con una drastica riduzione delle spese per i consumi pubblici, conseguente alla contrazione dell'intervento dello Stato. Questa azione consentì nel 1924 il raggiungimento di un avanzo di bilancio, ma il debito continuava a crescere soprattutto per la creazione, proprio nel 1924, dei buoni postali fruttiferi che pagavano il 6 per cento per una durata trentennale. Per tentare di riportare il debito sotto controllo, nel momento stesso in cui la scelta deflazionistica di Quota Novanta eliminava i correttivi permessi dall'inflazione, il nuovo ministro Giuseppe Volpi procedette da un lato alla rinegoziazione dei debiti esteri, che si tradusse nella loro sostanziale cancellazione, e dall'altro ad alcuni prestiti forzosi, a cominciare dal Prestito del Littorio del 1926, destinati ad allungare le scadenze e ad abbattere gli interessi: due misure che impedirono per almeno 10 anni al governo italiano di tornare sul mercato dei titoli pubblici. In queste condizioni in valori assoluti il debito passò da 91 milioni di euro nel 1920 a 103 nel 1924 per scendere a 56 milioni nel 1933. In relazione al Pil, il debito rimase sopra il 140 per cento fino al 1924 per scendere al 72 per cento nel 1931 e tornare a salire all'88 per cento nel 1934, quando il governo Mussolini procedette ad una nuova ed ancora più pesante ristrutturazione del debito imposta dalle pessime conseguenze della deflazione monetaria, iniziata con Quota Novanta, che fecero precipitare le entrate statali, ridotte dal fascismo anche per ragioni consenso. La guerra in Etiopia scatenò nuovamente la sequenza dei disavanzi che vennero coperti, di fronte al crollo delle entrate in grado di garantire solo il 20 per cento delle spese correnti all'inizio del secondo conflitto mondiale, con una forte produzione di carta moneta e con nuovi prestiti obbligatori i cui effetti furono molto dannosi per il reddito di buona parte degli italiani. Anche la riforma della Banca d'Italia, avvenuta nel 1936, contribuì a facilitare il finanziamento del debito e del Tesoro che chiedeva anticipazioni garantite dai medesimi titoli di Stato.
mercoledì 13 giugno 2012
martedì 12 giugno 2012
Analisi di un fischio
INTERVISTA AL CAPO DEI NEOBORBONICI
di
Nando Cimino
Ogni giorno, si soffermano ai cancelli della fattoria borbonica di Carditello, decine di persone. Giovani per la maggior parte, studenti delle diverse università sparse tra Capua, Santa Maria Capua Vetere e Aversa in particolare. Nel pomeriggio di ieri, tra i vari visitatori, ha fatto capolino anche Gennaro De Crescenzo, presidente dell’Associazione Neoborbonica. Particolarmente attivo nella narrazione del Sud e della sua storia è autore di numerosi libri e saggi tra cui “Le industrie ne Regno di Napoli”, “L’altro 1799: i fatti” e “Napoli, storia di una città” solo per citarne alcuni.
“Ogni volta che posso – ha spiegato il neoborbonico – faccio una passeggiata queste parti. Il Real Sito di Carditello, è l’emblema della mente illuminata dei Borbone e di Ferdinando II in particolare. Una visione straordinaria di comunione con il territorio che, oggi, è consegnata alla malasorte e al disfacimento.”
La presenza di Gennaro De Crescenzo però, è un’occasione troppo ghiotta, per parlare degli ormai famigerati fischi allo stadio, nel corso della partita Napoli-Juventus, valevole per la finale di Coppa Italia che, da storico e, manco a dirlo da tifoso verace della squadra partenopea, ha sottolineato: “Da decenni, quella con la Juve, non è una partita normale: per alcuni è il momento della rivalsa storica dei Borbone contro i Savoia. Il momento della rivalsa contro il Nord, contro i potentati politici ed economici di cui Torino, con la Fiat, è simbolo forte; il momento per ‘vendicarsi’ delle offese e delle umiliazioni subite quando si sta al Nord da emigranti.”
Eppure, dopo la storica vittoria di domenica notte, su tutto, è prevalso il dibattito sui fischi dei tifosi napoletani alle note dell’inno di Mameli?
“Dimenticano che, durante il minuto di raccoglimento per ricordare le vittime romagnole del terremoto e le vittime pugliesi dell’attentato, c’era stato un silenzio religioso e correttissimo, dove i tifosi hanno dimostrato tutto il loro cuore.” Non si era mai verificata prima una cosa simile.
“Infatti! Politici e opinionisti, avrebbero piuttosto il dovere di chiedersi il perché di certi fenomeni e capire il senso profondo di quella protesta.”
Per la verità, dal sonoro, si sentono più slogan che fischi.
“Trentamila persone, tutte insieme, gridavano quel coro ricco di orgoglio e di senso appartenenza ‘Partenopei, siamo Partenopei’. Ergersi a moralisti è facile perchè, per i difensori della retorica di Stato, è troppo difficile capire che quello napoletano, campano in generale, è un popolo senza voce da troppo tempo. E’ stato più facile criminalizzare che comprendere che, quel grido, era un grido non contro l’Italia ma contro questa Italia che da un secolo e mezzo ha dimenticato, cancellato, umiliato e offeso, questa parte del Paese.”
Forse c’è il timore per una deriva neoborbonica o, peggio, per un pericolo ‘terroNistico’?
“Esistono già due Italie o forse addirittura tre. Se guardiamo all’occupazione o ai redditi o magari alle assicurazioni delle auto. Troppo facile scaricare le proprie responsabilità, contro la plebaglia, i lazzaroni o i nuovi briganti che urlano il loro orgoglio e la loro rabbia. C’è chi inizia a ribellarsi in maniera comunque civile e si becca le multe del giudice Tosel, che ha fatto finta di non sentire i cori razzisti juventini e le offese in giro per l’Italia.”
Il mondo web, ha fatto da amplificatore alla genesi dei fischi. “Il provocatorio gruppo sul social network facebook ‘Ho fischiato anche io’, ha unito, in meno di 48 ore, oltre 7500 adesioni e tutte motivate”.
Ma allora, pensiamo ad un nuovo partito o ad un nuovo movimento politico?
“Niente di tutto questo; è solo il desiderio di un popolo intero, di ritrovare la strada del riscatto attraverso il recupero della sua orgogliosa identità.”
Carditello?
“Che dire? Carditello è l’aforismo della nostra terra; bella e maledetta da 151 anni di bugie. E’ l’emblema dell’approccio ad una questione meridionale sempre più dimenticata e sempre più drammatica. E’ la faccia dell’emarginazione in cui veniamo costretti dall’incapacità di chi, ancora oggi, si permette di ergersi a moralista super partes.”
Parole amare, quelle di Gennaro De Crescenzo che solcano il profilo del ritratto di una cristallina realtà.
domenica 10 giugno 2012
Spot per Torino, degrado per Napoli - Il Palazzo Reale di Napoli cade a pezzi mentre quello di Torino è perfettamente mantenuto.
Napoli - Palazzo Reale - Scalone
Qualche sera fa la Rai ha mandato in onda la Cenerentola di Gioacchino Rossini, opera rappresentata per la prima volta nel 1817 e che, in questa occasione, aveva come scenario la reggia torinese-sabauda di Venaria. Tutti sanno (?) che la prima versione della favola fu scritta in lingua napoletana da Giambattista Basile nei primi anni del Seicento e certamente prima del francese Perrault, dei fratelli Grimm o dello stesso Walt Disney. Era una delle cinquanta favole di quella preziosa
raccolta che fu “Lo cunto de li cunti, Trattenemiento de peccerille o Pentamerone”, tradotta in tutte le lingue del mondo e conosciuta in tutto il mondo (tranne che dalle nostre parti e… in Rai). In una pirotecnica e barocca lingua napoletana, il poeta nato (e sepolto) a Giugliano (Napoli), quando pensava a quello scalone di quel palazzo reale sui cui quella ragazza perde intorno alla mezzanotte la sua scarpetta, pensava (conoscendolo bene) allo scalone del Palazzo vicereale di Napoli. Dopo quasi 4 secoli, manca ancora sulle scale di quel palazzo (cambiato nella sua struttura originaria ma rimasto sostanzialmente simile a quello del grande Basile) una semplice targhetta-simbolo di radici e orgoglio che possa ricordare questo piccolo-grande esempio di cultura napoletana dimenticato dalla Rai e dimenticato dai politicanti o dai famosi intellettuali “ufficiali” della nostra ex capitale così come si regala un grande spot alla reggia dei Savoia mentre continua il degrado del nostro Palazzo Reale.
venerdì 8 giugno 2012
giovedì 7 giugno 2012
mercoledì 6 giugno 2012
L'OPINIONE
CARO NORD DOVE VAI SE IL SUD NON CE L'HAI ?
di
Lino Patruno
Ricomincio da Sud. Ci sono almeno tre ragioni per cui se l’Italia vuol crescere può farlo solo a Sud. Prima lo si capisce meglio è. Come meglio è se la si smette quanto prima di considerare il Sud un danno e non una salvezza per tutti.
Prima ragione. Non ci vogliono trattati di economia per capire una banalità. Resteremo nell’incubo di questa crisi se si continua ad andare avanti con un sistema (gli intellettuali dicono “modello di sviluppo”) per cui il Nord deve fare da locomotiva e il Sud, se va bene, seguirlo come bagaglio appresso. Il risultato è una crescita dello zero virgola qualcosa, anzi ora andiamo indietro. E’ come se avessi una Porsche e la facessi andare come una Panda. Non solo è uno spreco, ma prima o poi imballi il motore. Il Nord dovrebbe crescere al 10 per cento come una Cina per far crescere in media l’Italia almeno al 3 per cento, quota minima per riprendere a creare lavoro.
Ma oggi solo la Cina è Cina. E poi il Nord è al limite, saturo, sfiatato, non può crescere più di tanto: devi avere anche lo spazio per altri capannoni. Se dai a un riccone altri cento euro, non ti ringrazierà neanche, se li dai a un poveraccio gli hai cambiato la giornata. Riesce a lavorare al Sud un venti per cento in meno rispetto al Nord: se potessero spaccherebbero le pietre. Si dovrebbero cambiare le condizioni, investire al Sud quei soldi destinati al Sud ma invece utilizzati per tante altre cose, dalle multe dei vaccari bergamaschi ai traghetti del lago Maggiore. E i treni, al Sud, si dovrebbe darglieli non toglierglieli.
Seconda ragione (per cui bisognerebbe ricominciare da Sud). La conferma viene proprio in questi giorni dalla Banca d’Italia, non da qualche irriducibile terrone mezzo piagnone mezzo cialtrone. Nel Paese che i signorini dalle mani sporche della Lega Nord vogliono tagliare in due, se non ci fosse il Sud che acquista non ci sarebbe il Nord che vende. Altro che secessione, altro che ce ne andiamo per conto nostro: dove vanno?
L’integrazione fra le due Italie è tale che dovrebbe far ricredere anche il Luca Ricolfi del “Sacco” (saccheggio) del Nord. Insomma la bibbia che il Salvini sbandiera sempre come dimostrazione del Sud parassita. La Banca d’Italia dice che è vero che ogni anno 50 mila miliardi di tasse del Nord vengono spesi anche nel resto del Paese. Ma è vero pure che ritornano con gli interessi (oltre 60 miliardi) in acquisto di prodotti del Nord da parte del Sud. E aumentano ancòra se ci aggiungiamo, mettiamo, i ricoveri di meridionali al Nord (pagati dalle Regioni del Sud). E se ci aggiungiamo i giovani meridionali che vanno a lavorare al Nord ma la cui istruzione l’hanno pagata i loro genitori al Sud (a parte le tasse che versano lì).
Questi conticini li aveva già fatti da tempo Paolo Savona, economista, ex ministro, banchiere. Ma chi volete che gli desse retta visto che smentiva un pregiudizio sul Sud? Piagnone anche lui. Così si scopre anche (Luca Bianchi direttore della Svimez) che un quarto della ricchezza annuale della Lombardia proviene dalle vendite al Sud. Ma invece che di Sud creditore si continua a parlare di Sud debitore. E invece che, magari, di “Sacco” del Sud, si continua a parlare di “Sacco” del Nord. Si è meridionali anche nei sacchi. Senza dimenticare la ciliegina che, nonostante tutto, la spesa dello Stato è maggiore al Nord che sta meglio rispetto al Sud che sta peggio.
Ma c’è la terza ragione (per cui bisognerebbe ricominciare da Sud). Buona parte dell’attuale crisi del Nord è dovuta al fatto che è in crisi anche il Sud che compra meno. E che se dalla crisi si esce solo col rilancio dei consumi (e quindi della produzione, del lavoro ecc. ecc.), o il Sud si muove o la barca affonda. Il Nord dipende dal Sud, una bestemmia. E’ sbagliato allora non solo il sopraddetto “modello di sviluppo” della locomotiva, ma anche quello conseguente del Nord che vende e del Sud che acquista. Pensiamo a cosa avverrebbe se tutti i Nicola Cassano e le Carmela Palumbo del Sud decidessero un giorno il CompraSud, acquistare solo prodotti meridionali (e ce ne sono): il panico.
Conclusione: nessun Paese può reggersi su un Nord e su un Sud come in Italia. Nessun Paese almeno che voglia restare fra i primi dieci al mondo. Né si può tenere inutilizzato mezzo motore senza perdere velocità, anzi bruciando la testata. E con l’aggiunta che un altro “modello di sviluppo” (rieccolo) converrebbe anche al Nord perché la crescita del Sud lo farebbe sfiatare meno. Tranne che non si voglia lasciare tutto così perché fa comodo: la chiamiamo sottomissione?
Ma se occorre ricominciare da Sud, anche il Sud deve ricominciare da se stesso. C’è al Sud una prateria di cose da fare (oltre che di cose fatte). Il Sud s’arrabbi di brutto per i treni tolti, ma poi metta in campo al più presto la propria locomotiva. Il futuro è a Sud.
Iscriviti a:
Post (Atom)