domenica 30 dicembre 2012

Messa in suffragio di S.M. Francesco II






Come annunciato, su iniziativa del Movimento Neoborbonico, dell’Editoriale Il Giglio e della Delegazione campana dell’Ordine Costantiniano di San Giorgio, giovedì 27 dicembre si è tenuta a Napoli, nella Chiesa di San Ferdinando di Palazzo, la SS. Messa in suffragio dell’Anima Santa di Francesco II di Borbone, ultimo Re delle Due Sicilie, nell’anniversario della sua morte avvenuta il 27 dicembre 1894.
La SS. Messa, in rito romano antico, è stata celebrata dal Rettore di San Ferdinando, Don Pasquale Silvestri, che, all’omelia, ha ricordato le virtù cristiane e umane dell’ultimo Re di Napoli.
Presente una moltitudine di amici e compatrioti, quindi i vertici ed alcuni delegati territoriali del Movimento, nonché i responsabili dell’Editoriale Il Giglio, la dott.ssa Marina Carrese ed il dott. Maurizio Dente, i Cavalieri del Sacro Militare Ordine Costantiniano di San Giorgio guidati dal marchese Pierluigi Sanfelice di Bagnoli, Delegato di Napoli e Campania del Sacro Militare Ordine Costantiniano di San Giorgio. 
Presente il Cav. Marco Crisconio Vicepriore dell’Arciconfraternita di San Ferdinando di Palazzo (il Priore è S.A.R. Carlo di Borbone).
Ad aprire la celebrazione è stato il marchese Pierluigi Sanfelice di Bagnoli che ha letto una breve allocuzione ed il messaggio inviato dal S.A.R. il Principe Carlo di Borbone delle Due Sicilie. 
Al termine della SS. Messa il Coordinatore Nazionale del Movimento Neoborbonico, il Cav. Alessandro Romano, ha ricordato questo grande Sovrano, quale esempio di Re illuminato dalla grazia di Dio, discendente di una nobile Dinastia che tanto ha fatto per la grandezza di una Nazione e per la dignità di un Popolo.
Ha presenziato la celebrazione un Picchetto, con Bandiera a Labaro, della Guardia d’Onore dell’Ordine Costantiniano di San Giorgio, guidati dal Dott. Luigi Andreozzi.
A conclusione della cerimonia, il soprano Ellida Basso, accompagnata all’organo dal maestro Giuseppe D’Errico, ha cantato l'Inno Nazionale delle Due Sicilie in un’atmosfera di profonda partecipazione e di forte commozione.
Cliccando sul link seguente potrete vedere alcune riprese della cerimonia

http://www.youtube.com/watch?v=NPZtyTBtz_Y&feature=share


Si ringraziano tutti coloro che, nonostante impegni e distanze, hanno partecipato rispondendo al nostro appello. Il prossimo appuntamento con la Patria sarà a Gaeta il 15, 16 e 17 febbraio 2013.


 Le immagini della celebrazione

 (sono di Francesco ed Amedeo Andreozzi)










sabato 29 dicembre 2012

Mommo Cavallo a Villa Castelli



“ SIAMO MERIDIONALI “



Sabato 29 dicembre 2012, alle ore 18.00, presso la Sala Consiliare del Comune di Villa Castelli (Brindisi), in Piazza Municipio, l’Associazione “Settimana dei Briganti - l'altra storia”, con il patrocinio dell'Amministrazione Comunale di Villa Castelli e in collaborazione con Associazione Euclidea di Villa Castelli, nell'ambito de I SABATI BRIGANTESCHI organizza la presentazione del volume Mimmo Cavallo: 


Siamo meridionali !



di Antonio G. D'Errico



PROGRAMMA

Introduce: Vito Nigro

Coordina: Rocco Biondi


Sarà presente il cantautore   

MIMMO CAVALLO

che canterà suoi pezzi famosi



Nato a Lizzano (Taranto) nel 1951. Vive tra Roma, Milano e la Puglia. Negli anni ottanta raggiunge i vertici della hit parade con la canzone Siamo meridionali. Ha scritto pezzi per Fiorella Mannoia, Mia Martini, Zucchero, Gianni Morandi, Al Bano. Amico di Renzo Arbore, che nella sua classifica lo mette al primo posto dei cantanti di interesse collettivo. Di recente ha collaborato con Pino Aprile nella trasposizione teatrale del best seller Terroni, pubblicandone poi i brani nel suo nuovo album Quando saremo fratelli uniti.


Presentazione di Leo Tenneriello

Nato a Taranto nel 1964, laureato in Scienze Politiche, attualmente lavora in banca. Cantautore, ha pubblicato due album. Collabora con Mimmo Cavallo.

In videoconferenza l'autore Antonio G. D'Errico



Evento

Gli attori Valentino Ligorio e Roberta Mele leggeranno dei brani dal libro.



L'Assessore alla Cultura

Comune di Villa Castelli

Avv. Antonio Ciracì



Il Presidente

Settimana dei Briganti - l'altra storia

Prof. Rocco Biondi






Mimmo Cavallo 

Siamo meridionali!, di Antonio G. D'Errico



Il libro è la trascrizione di una lunga intervista al cantautore Mimmo Cavallo. Brevi domande, lunghe risposte. Merito dell'autore D'Errico è stato quello di pungolare opportunamente Cavallo per farne uscire fuori la grande ricchezza dell'uomo e dell'artista.
Si inizia dall'adolescenza quando, non essendoci ancora la tv, nelle fredde sere invernali, le famiglie contadine del Sud si riunivano intorno al fuoco e i grandi raccontavano storie meravigliose tramandate oralmente da generazioni. Le scintille che scoppiettavano erano le anime dei morti che si palesavano. Nelle menti dei bambini realtà, mito e fantasia si sovrapponevano.
Il primo rapporto del piccolo Mimmo con la musica era intriso di magia, di riti e credenze popolari. Ha visto ballare vecchie con una coperta in testa, seguite da suonatori sciamannati della taranta. In me - dice Cavallo - futuro e passato sono sempre stati insieme. Il primo strumento musicale che entrò in famiglia fu una chitarra, acquistata da suo fratello. Mimmo emigrò a Torino dove suo padre aveva trovato lavoro come operaio alla Fiat. Suo fratello mise su un gruppo musicale, nel quale successivamente entrò anche lui.
In quel tempo, oltre a scrivere canzoni e a svolgere lavori saltuari, leggeva molta letteratura di impegno. Pasolini fu un suo riferimento, ma anche Marcuse, Sartre, Moravia, Pavese.
Dalla prima moglie da giovanissimo (ventun anni) ebbe una figlia. Con un'altra donna ha poi avuto altri due figli. Queste donne e questi figli hanno avuto ed hanno una grande importanza nella sua vita umana ed artistica.
Mimmo Cavallo ha finora pubblicato sei album musicali: Siamo meridionali con la CGD nel 1980, Uh, mammà! ancora con la CGD nel 1981, Stancami, stancami musica con la Fonit Cetra nel 1982, Non voglio essere uno spirito con la DDD nel 1989, L'incantautore sempre con la DDD nel 1992, Quando saremo fratelli uniti con la Edel nel 2011; nel 2006 la Warner aveva pubblicato una  raccolta con Le più belle canzoni di Mimmo Cavallo.
Cavallo è uno spirito libero, che non accetta nessun tipo di imposizione. Rifiuta di partecipare al Festival di Sanremo e a Quelli della notte di Renzo Arbore, che nella sua classifica lo aveva messo al primo posto. Rifiuti che nei fatti lo terranno ai margini del mercato della discografia nazionale. Resta lontano dai riflettori, anche se i concerti dal vivo non mancano, dal Nord al Sud d'Italia. 
Cavallo si rimprovera di non essere un buon imprenditore di se stesso. Dice: «Uno può avere grandi doti - vocali, di immagine, contenuti - ma se reagisce male agli eventi può essere davvero problematico resistere dentro un mondo così pieno di gente pronta a lasciarti passare in secondo piano».
Eppure i suoi primi album Siamo Meridionali e Uh, mammà avevano avuto grande successo. Ma verso la metà degli anni ottanta il 'meridionalismo d'autore' perde interesse.
Scrive pezzi per Fiorella Mannoia (Caffè nero bollente), Mia Martini (Buio), Zucchero (Vedo nero), Gianni Morandi (E mi manchi), Al Bano (Gloria Gloria), Ornella Vanoni (Il telefono), Loredana Berté (Io ballo sola).
Dopo lunghi anni di silenzio come cantante, incontra Pino Aprile. Ne nasce un ricco e fruttuoso sodalizio, che porterà prima alla trasposizione teatrale del best seller Terroni e poi alla pubblicazione dell'album Quando saremo fratelli uniti. La filosofia che sta alla base di quest'ultimo album viene così esplicitata da Mimmo Cavallo nell'intervista: «L'Unità d'Italia, in realtà, è una vera e propria occupazione, in cui il Sud diventa colonia del Nord. La ricchezza del Nord sarà frutto di razzie compiute ai danni della colonia del Sud. Le strade ferrate, le ferrovie, i commerci, le banche, e tutto quello che verrà fatto al Nord sarà fatto coi soldi del Sud...». Fra i pezzi, tutti molto belli, io prediligo Siamo briganti.
Mi piace chiudere questa recensione con le parole con cui Pino Aprile chiude la presentazione: «Credo che Mimmo Cavallo abbia ricevuto meno di quel che ha dato».

Rocco Biondi


Antonio G. D'Errico, Mimmo Cavallo. Da Siamo meridionali a Caffè nero bollente, dall'incontro con Enzo Biagi a Zucchero, Presentazione di Pino Aprile, Bastogi Editrice Italiana, Foggia 2012, pp. 122, € 12,00








venerdì 28 dicembre 2012

Concerto per pianoforte a Napoli per Napoli



L' Associazione Culturale Sebezia Onlus, in collaborazione con la Congregazione della Missione di S. Vincenzo de Paoli, organizza un concerto per pianoforte solista con il maestro Mario Coppola.

Il concerto si terrà il 6 gennaio, alle ore 18.00 presso la Sala delle Conferenze della Casa della Missione, in Via Vergini 51 a Napoli.
Il contributo è di euro 10,00. L'incasso sarà devoluto parte a vantaggio delle Missioni dei Padri Vincenziani, parte per la realizzazione dei progetti di recupero dei Beni Culturali napoletani che l'Associazione Sebezia ha in programma. Il primo riguarderà la Chiesa Basilica di Santa Maria della Pazienza alla Cesarea.
Il Presidente dell'Associazione Culturale Sebezia Onlus, il Dott. Lorenzo Terzi ci comunica:
“Saremo lieti di incontrarvi in occasione di questa importante iniziativa, cui ne seguiranno altre finalizzate alla raccolta-fondi per finanziare i progetti dedicati ai Beni Culturali.
Vi chiediamo, inoltre, di aiutarci a diffondere la notizia”.
Ricordiamo che non si potrà accedere alla sala una volta iniziato il concerto, per cui vi raccomandiamo di anticiparvi di un quarto d'ora.
E' possibile sin da ora prenotare i posti e versare il contributo di Euro 10 - a fronte del quale sarà rilasciata ricevuta - anche tramite bonifico bancario sul conto intestato all'Associazione Culturale Sebezia Onlus il cui IBAN è: IT86G0316501600000011737607 (causale: "Donazione"), oppure contattando gli organizzatori al numero di telefono 3481001877.
Alleghiamo il programma del concerto.



lunedì 24 dicembre 2012

E' NATALE




Carissimi fratelli e Confratelli, amici e compatrioti sta per arrivare il Natale, il Signore della pace e dell’amore ci sta donando ancora una volta il suo Figlio prediletto, il Fanciullo divino, unica speranza dell’umanità.
Che il Bambinello possa illuminare le menti e la vita di tutti noi, dei nostri cari e dei nostri nemici.
Con sincero affetto.

La Redazione 
della Rete di Informazione 
del Regno delle Due Sicilie.


NON SPEGNERE MAI NEL TUO CUORE
L’ARDENTE FIAMMA DELL’AMORE,
MA DIFFONDILA NEL MONDO, PERCHE’
IL MONDO GRAZIE A TE  POSSA CONTINUARE
A CREDERE ANCORA NELL’AMORE DI DIO
Buon  Natale
(Priore Karlino Bertini)









sabato 22 dicembre 2012

SS Messa in suffragio di S.M. Francesco II di Borbone




IL MOVIMENTO NEOBORBONICO

LA DELEGAZIONE CAMPANA 
DELL’ORDINE COSTANTINIANO DI SAN GIORGIO

L’EDITORIALE IL GIGLIO


annunciano



la SS. Messa in suffragio dell’anima santa di Francesco II di Borbone, ultimo Re delle Due Sicilie, nell’anniversario della sua morte avvenuta il 27 dicembre 1894, che si terrà nella Chiesa di San Ferdinando di Palazzo in Napoli, Piazza Trieste e Trento (Piazza S. Ferdinando), giovedì 27 dicembre, alle ore 18.
Alla SS. Messa che sarà officiata in rito romano antico, saranno presenti il Marchese Pierluigi Sanfelice di Bagnoli, Delegato di Napoli del Sacro Militare Ordine Costantiniano di San Giorgio, ed il Cav. Marco Crisconio dell’Arciconfraternita di San Ferdinando di Palazzo. 
La commemorazione sarà tenuta dal Presidente del Movimento Neoborbonico prof. Gennaro De Crescenzo. 
Presenzierà un picchetto delle Guardie d’Onore dei Cavalieri dell’Ordine Costantiniano di San Giorgio con labaro. Sarà eseguito l'Inno Nazionale delle Due Sicilie di Giovanni Paisiello e sarà esposta la Bandiera di Stato.

Il Movimento Neoborbonico, unitamente a tutte le sue componenti rappresentative centrali e periferiche, invita gli iscritti, i compatrioti, i Confratelli dell’Ordine Costantiniano e gli amici nella Fede e nell’Ideale a presenziare la funzione religiosa in suffragio del Re.

A presto.


Cap. Alessandro Romano









giovedì 20 dicembre 2012

Pagani - Storia del Monastero e della Chiesa di Santa maria della Purità



Il Cav. Gerardo Tipaldi, Presidente della emerita Pia Unione Ammalati Cristo Salvezza di Pagani, è stato il promotore di un evento culturale che, a partire da sabato 13 ottobre 2012, ha interessato fino al 4 novembre il Monastero e della Chiesa di Santa Maria della Purità a Pagani.
All’inaugurazione del partecipatissimo evento è stato presentato il libro “Storia del Monastero della Chiesa di S. Maria della Purità” che, calata nel contesto storico del Regno, fa rivivere le vicende più belle e più dolorose del nostro passato.

Si può averlo mandando una mail a  puritas@tiscali.it 



 Il  Libro


Storia del Monastero e della Chiesa di S.Maria della Purità
Contesto Storico-Religioso-Politico-Sociale del Sud


narra la Storia del Glorioso Sacro Edificio  di S.Maria della Purità, inserita nel contesto dei tragici avvenimenti storici del 1860-1863, particolarmente per la Chiesa e il Popolo del Sud, riportati in diversi  capitoli  della Pubblicazione, di cui uno dedicato alla figura del Sommo Pontefice Beato Pio IX e a S.M. Ferdinando II, Re delle Due Sicilie, che, l’8 ottobre 1849, giunsero in treno a Pagani, per pregare sulla tomba di S.Alfonso Maria de’Liguori, grande Santo Napoletano e Meridionale.
Un altro dei capitoli, solo per citarne ancora qualcuno,  è dedicato alla  eroica difesa di Gaeta, dove prevalse l’orgoglio e la tenace  volontà dei Sovrani Francesco II e Maria Sofia di non soccombere, senza combattere,  all’invasione ed alla violenza sabauda. 


mercoledì 19 dicembre 2012

Nuova sede operativa Neoborbonica vesuviana a San Giorgio a Cremano






Pubblico delle grandi occasioni sabato sera per la presentazione della nuova Delegazione per l'area vesuviana del Movimento Neoborbonico affidata a Ciro Di Giacomo. 
Interventi dello stesso Di Giacomo, di De Crescenzo, di Felice Abbondante e di Edo e Gigi Attrice, stimatissimi opinionisti del Roma e assidui frequentatori degli incontri Neoborbonici, per una serie di proposte importanti per il futuro dell'area in questione (profondamente legata alla storia borbonica): battezzata anche l'idea di uno "sportello dell'identità e dell'orgoglio" al servizio dei cittadini sangiorgesi e "vesuviani". 
Sempre più alla ricerca di riferimenti civico-culturali. 



martedì 18 dicembre 2012

Eddy Napoli


Nessun cantante campano del talento di Eddy Napoli ha mai abbracciato la nostra Causa come ha fatto da sempre questo grande interprete ed autore della Canzone Napoletana.
Ad Eddy dobbiamo molto in termini di diffusione e di partecipazione, e non solo. 
Uno dei suoi maggiori meriti è quello di essere riuscito a coinvolgere la parte più “distratta” della popolazione, ubriacata da falsi miti e da malefici stereotipi, avviandola nella presa di coscienza identitaria, meta della nostra intensa e quotidiana attività.
Proprio in questi giorni è stata pubblicata la sua recente fatica, una raccolta di brani classici della Canzone Napoletana interpretata come solo lui sa fare.
Un dono da non perdere.








DICITINCELLO VUIE

MALINCONICO AUTUNNO

NUN ME SCETÀ

LUNA ROSSA

LA DONNA RICCIA

TU SÌ NA COSA GRANDE

SANTA LUCIA LUNTANA

MALIZIUSELLA

SOLITUDINE

A SERENATA 'E PULICENELLA

NAPULITANATA

LUNA ROSSA (SPECIAL GUEST PAUL SORVINO)

‘A VOCCA ’E CUNCETTINA

TORNA MAGGIO

’O CALIPPESE NAPULITANO

CERASELLA

DDUJE PARAVISE

’A VUCCHELLA

NOTTE LUCENTE

QUANNO AMMORE VO’ FILA’

PIGLIATILLO PIGLIATILLO

MARIA MARI’



 Per prenotazioni:

onluspassatoefuturo@libero.it  


€ 20.00 + spese postali




lunedì 17 dicembre 2012

Fenestrelle - Lino Patruno docet



IL DIBATTITO SU FENESTRELLE 
ALLA LIBRERIA LATERZA DI BARI



Che non fosse un dibattito qualsiasi, lo si era capito prima e se ne è avuta conferma dopo. Il dibattito su Fenestrelle alla libreria Laterza di Bari. Anzitutto in territorio ostile, in casa di un editore che sul Risorgimento italiano non ha mai pubblicato nulla che non sposasse la storia raccontata dalle università e dall’accademia. E poi con uno storico come il torinese Alessandro Barbero, che appunto per Laterza ha scritto “I prigionieri dei Savoia. La vera storia della congiura di Fenestrelle”: non solo una conferma delle tesi fin qui ascoltate, ma anche un meditato florilegio verso le tesi dei Movimenti meridionali, a cominciare dai Neoborbonici. Barbero non voleva solo contrapporsi alla mala pianta (a suo parere) del revisionismo storico, ma voleva irriderla e umiliarla. Sul piano scientifico, ovvio, non potendo sospettare in lui rancori personali che invece hanno rischiato di fare subito capolino. Alla partenza, con un risolino verso il pubblico che gli è stato immediatamente rinfacciato e che egli ha dovuto altrettanto immediatamente ritirare. Il risolino verso interlocutori dalle tesi e dall’ardire non meritevoli di un rispetto né scientifico né democratico. Insieme all’accusa di storia mistificata col “fine immondo” di accendere gli animi del Sud e spaccare l’Italia. Non meraviglia, anzi meraviglia, in uno studioso che è parso aver dimenticato cosa volesse spaccare la Lega Nord (e che da una regione governata dalla Lega Nord proviene). Lega verso la quale ha però usato senza perifrasi un solo aggettivo: “ignoranti”. Eppure Barbero ha voluto il dibattito, in un certo modo legittimando l’interlocutore. Frutto forse di una sapiente scelta di marketing dell’editore. Ma frutto anche dello tsunami di reazioni (alcune, per la verità, abbastanza scomposte) che hanno investito soprattutto in Internet l’uscita del libro. Reazioni in buona parte inevitabili, e non solo per gli argomenti ma perché già da un anno Barbero aveva fatto grancassa televisiva su ciò che stava scrivendo, diciamo una provocazione. Di cosa poteva lamentarsi? Aveva avuto ciò che in fondo voleva. Chi scrive e ha fatto da moderatore al dibattito, aveva colto le dichiarate preoccupazioni dell’editore perché la serata fosse civile e costruttiva. Quale è stata, in una libreria Laterza mai così colma di pubblico (soprattutto appartenenti a Movimenti meridionali) che non ha mai dato conferma della virulenza che col consueto pregiudizio gli si voleva attribuire, non ha mai sventolato bandiere o urlato come una Curva Sud. Così la serata è stata una vittoria per tutti. Ma anzitutto grazie a chi era sospettato di poter essere brutto, sporco e cattivo. Quanto a Fenestrelle, inutile ripeterne i dettagli. Secondo Barbero, una caserma nella quale dal 1860 al 1863 furono condotti soldati borbonici resistenti all’arruolamento nell’esercito italiano, e con qualche morto fra loro. Secondo il ferratissimo presidente dei Neoborbonici, il professor Gennaro De Crescenzo, un campo di concentramento nel quale i soldati borbonici furono deportati in massa e fatti morire di fame e di freddo. Una normale operazione militare secondo l’uno, una operazione stile Auschwitz secondo l’altro. Quale la verità? Ciascuno ha dato fondo ai suoi documenti. Con Barbero che ha rivendicato i suoi. E con De Crescenzo (un Maradona in materia grazie ai suoi studi di archivistica) che gli ha platealmente dimostrato come la documentazione utilizzata per il libro sia una minima parte di quella che comincia a essere finalmente disponibile.
Barbero, ad esempio, non è mai passato da Napoli alla ricerca di fonti. Accusa cui ha reagito dicendo che lo storico scrive quando ritiene che la verità accertata sia sufficiente, altrimenti finora non si sarebbe ancora scritto niente del nazismo e dello sterminio degli ebrei. E con De Crescenzo che gli ha fatto notare come la verità possa essere non solo insufficiente ma del tutto distorta quando a essere trascurati sono addirittura decine di migliaia di documenti, quelli cui i Neoborbonici hanno accesso e continuano ad avere accesso, e non solo su Fenestrelle. Bisogna invece continuare a scavare. Non limitandosi agli archivi ufficiali, ma andando anche nelle parrocchie e negli ospedali. Barbero ha assicurato che se si accorgerà che c’è altro, ritornerà sull’argomento. De Crescenzo ha obiettato che se c’è un dubbio, non bisogna sparare teorie, specie quando si offende la memoria di un Sud che non ha visto mai citati da nessuna parte i suoi morti, insomma è stato cancellato dalla storia anche con le sue vittime di un’Italia che si aveva da fare. Non importa se a danno del Sud. Inevitabile anche lo scontro sulla lapide apposta dai Movimenti meridionali a Fenestrelle in ricordo delle vittime del Regno delle Due Sicilie. Secondo Barbero, un’autorizzazione concessa indebitamente, vista la sua versione di ciò
che lì accadde. Secondo De Crescenzo, un atto che sarebbe stato dovuto anche se ci fosse stato un solo soldato meridionale morto. Morto per quella che, secondo la stessa copertina del libro dello storico torinese, fu una “guerra non dichiarata”.
Conclusione: bisognerà continuare a studiare in onestà per far rimarginare la ferita con la quale l’Italia unita nacque. Come anche Barbero ha ammesso, ancorché la sua verità (o presunta verità) sia già stata scodellata in 362 pagine. E quando dal compostissimo pubblico gli è stato chiesto cosa pensa del Museo Lombroso di Torino, ha risposto che la scientificità e le teorie del criminologo veneto-piemontese abbisognano perlomeno di un supplemento di indagini. Ma intanto le scolaresche continuano a passare davanti a teche coi teschi di meridionali "criminali nati" a detta di Lombroso. E intanto il veleno contro il Sud continua a essere iniettato anche negli italiani di domani. Chissà perché il risolino iniziale del professor Barbero, peraltro studioso e persona di tutto rispetto, si è poi stemperato nel fitto colloquio finale con molti del pubblico. Forse non sapeva che erano discendenti di briganti, se briganti sono tutti i meridionali a caccia ancora di giustizia e verità 150 anni dopo. 

Lino Patruno, 

Bari, 12/12/12.



sabato 15 dicembre 2012

La voragine di Miano



Ci risiamo. 
Ancora una volta a Napoli nella zona il cui perimetro si estende fra Miano, Secondigliano e Capodimonte è stata sfiorata la tragedia e Margherita Cancello, Adina Pislaru e Andrea Mormone, precipitati con la loro Fiat Seicento grigia sul fondo di una voragine apertasi improvvisamente verso le ore 23 del primo dicembre scorso in Piazza Regina Elena a Miano, se la sono cavata soltanto con un forte shock. 

Il giorno dopo proprio in quel punto del quadrivio, in prossimità della parrocchia di Maria Santissima Assunta in Cielo e all’altezza di un antico crocifisso di bronzo risalente alla fine dell’800 molto venerato nel quartiere, alcune centinaia di ragazzi avrebbero dovuto incontrarsi per dare vita ad una marcia per la legalità. 
Sarebbe stata una strage e già si grida vox populi al miracolo per ciò che sarebbe potuto accadere e per fortuna non è accaduto. 
D’altra parte anche i tre superstiti sono stati salvati forse proprio grazie al crocifisso che avrebbe impedito, incastrandosi fra le macerie e i detriti, l’ulteriore sprofondamento dell’auto con i tre occupanti. 
Comunque siano andate le cose, registriamo l’intervento da manuale degli speleoalpinifluviali appartenenti alla squadra speciale Saf dei Vigili del Fuoco che si sono prodigati per il salvataggio delle persone in uno dei numerosi e difficilmente ponderabili scenari incidentali, che richiedono adeguate tecniche interventiste che un’elite scelta del Corpo ha messo a punto nell’arco degli ultimi anni organizzando duri e selettivi corsi.
Ma l’intera zona non è nuova ad eventi così drammatici e senza tornare troppo indietro nel tempo ricordiamo quel 23 gennaio del 1996 quando, alle 16.20 precise, il quadrivio di Secondigliano fu devastato da un’esplosione spaventosa causata da una fuga di gas; le vittime furono 11 e il corpo della ventiseienne Stefania Bellone non fu mai trovato. 
In quella circostanza furono registrate precise responsabilità in quanto un mega-cantiere sotterraneo, che non doveva proprio essere aperto a causa della fragilità del territorio, era diventato operativo, nonostante le proteste a oltranza degli abitanti del quartiere, causando così la tragedia che già tre giorni dopo cadde nell’oblio mediatico a causa dell’incendio del Teatro La Fenice di Venezia. 
Ed ancora ricordiamo il dicembre di quello stesso anno quando i due fabbri Franco e Carmine Angrisano, padre e figlio, furono risucchiati con parte della loro bottega, in via Miano, mentre stavano mangiando; ogni tentativo di recupero fu inutile. 
Altre vittime sacrificate sull’altare dell’incuria di un territorio che non merita di vivere nell’abbandono. 
Tornando al disastro di questi giorni è doveroso ricordare che proprio poche settimane fa il prof. Franco Ortolani, direttore del Dipartimento di pianificazione e scienza del territorio dell’Ateneo Federiciano e Silvana Pagliuca del Consiglio Nazionale delle Ricerche – Isafom, avevano messo in guardia le istituzioni chiedendo ripetutamente di “non sottovalutare il pericolo connesso alla presenza di cavità nel sottosuolo nell’area nord di Napoli”. 
L’incontro era stato organizzato, neanche a farlo apposta, dal Comitato di Salvaguardia di Secondigliano presso il Centro Civico Sandro Pertini alla presenza di due assessori comunali e si era accennato anche a un altro improvviso sprofondamento avvenuto il 9 novembre scorso nei pressi dell’aeroporto di Napoli “in seguito all’azione erosiva esercitata da acqua fuoriuscita da una conduttura dell’acquedotto”. 
A Miano dai rilievi tecnici emerge che la profondità della voragine ha raggiunto oltre 5 metri, ha una forma ellettica di circa 13-14 metri per 9-10 metri e al di sotto del quadrivio persistono fognature in muratura, tubi dell’acquedotto e del metano, cavi di varia natura; comunque molti sottoservizi sono estremamente superficiali ovvero solo a qualche decina di centimetri al di sotto del selciato. 
“Fino alla profondità di circa tre metri si trovano sedimenti alterati e rimaneggiati inglobanti vari, manufatti e sottoservizi; - è scritto nella relazione stilata dal prof. Franco Ortolani e dalla dott.ssa Silvana Pagliuca all’indomani dell’evento – al di sotto si vedono le piroclastiti stratificate (pomici e lapilli) posteriori al Tufo Giallo Napoletano la cui età risale a circa 14mila anni fa…
L’analisi dei dati evidenzia che al di sotto del pacco di sedimenti superficiali si è formata una cavità artificiale la cui base potrebbe essere pochi metri al di sotto dei sottoservizi oppure più profonda intorno a 8-10 metri dal piano di campagna. 
La cavità è stata causata dalla fuoriuscita di acqua dai sottoservizi e i sedimenti sono stati trasportati dall’acqua probabilmente parallelamente alle condutture – sostengono ancora gli studiosi – oppure sono stati risucchiati da cavità più profonde preesistenti”. 
Dallo studio emerge dunque che non è sufficiente riempire la cavità bensì è necessario che si proceda ad un accertamento sistematico, attraverso sondaggi e carotaggi del terreno, per verificare se esistano o meno cavità più profonde al di sotto dei detriti provocati dal crollo. 
“L’evento mette in luce il disordine pericoloso esistente nel sottosuolo e l’assenza di un governo attento ed efficace – si legge nella relazione tecnica - che regolamenti gli interventi in una zona caratterizzata da sedimenti insidiosi che non consentono quasi mai di individuare, prima dei crolli, la formazione di cavità in relazione alla fuoriuscita di fluidi in pressione da condotte idriche e fognarie”.
Ora è sotto gli occhi di tutti che le strade partenopee presentano pericolosi avvallamenti, che i marciapiedi disconnessi e pieni di crepe costituiscono un pericolo per i pedoni, che i tombini e i chiusini sono ostruiti e senza manutenzione da tempo immemorabile, ed ancora che l’intera rete fognaria risulta abbandonata a sé stessa tranne nei casi in cui la banda del buco di turno cerchi di penetrare nei caveau delle banche o degli uffici postali; solo in quel caso, grazie alla pressione delle forze dell’ordine, i tecnici procedono ad ispezioni sistematiche. 
Un vero disastro la cui colpa viene sempre fatta ricadere sulla pioggia, poca o molta che sia.
Mentre il ceto politico e l’intero management amministrativo favoleggiano di sviluppo sostenibile e propongono progetti inutili e faraonici i piani di manutenzione, stilati obbligatoriamente ai sensi della Legge Merloni del 1994 e sempre consigliati dal buon senso, rimangono inapplicati nei cassetti di burocrati ben pagati ma colpevolmente inefficienti. 
La cultura manutentiva non può diventare un valore condiviso fra tutti i cittadini se chi governa non mostra alcun rispetto nei confronti degli impianti, dei servizi e delle attrezzature che servono per il corretto funzionamento della città e se chi governa, per il periodo in cui rimane in carica, non conserva in uno stato di efficienza o non ripara tutto ciò che trova al momento del suo insediamento. 
È uno sfascio continuo e nella nostra città, paradossalmente, funzionano meglio le infrastrutture più antiche che quelle recenti ritenute tecnologicamente avanzate. 
I familiari delle vittime dei disastri prima elencati non hanno avuto, a distanza di tanti anni, alcun risarcimento per i gravi danni materiali, morali e affettivi subiti. 
Oggi, a Miano, vittime non ce ne sono state per puro miracolo. 
Perché le autorità comunali, piuttosto che continuare a vessare i cittadini con tasse inique e balzelli intollerabili a fronte di zero servizi (e non solo quando piove) non comincia a farsi carico della vera volontà dei cittadini, a rappresentarli degnamente e ad attivare piani di manutenzione su vasta scala? 
La risposta probabilmente sarà sempre la solita: mancanza di soldi. 
E allora violino l’ingiusto patto di stabilità e facciano vedere da che parte stanno, smettendo di pensare solo ai propri stipendi e ai propri privilegi, e uscendo finalmente dalle blindate torri d’avorio dove volontariamente si sono autoconfinati un po’ per status un po’ per paura della gente esasperata. 
Siamo certi che i cittadini apprezzerebbero molto una sincera, doverosa e necessaria presa di contatto con il territorio. 
La città fino ad ora ha assorbito come una spugna tutte le inadempienze, le incapacità, le colpe e gli errori di una classe politica quasi mai all’altezza dei compiti che derivavano da un preciso mandato elettorale; ora, con la crisi economica che morde e l’impossibilità di applicare l’arte dell’arrangiarsi non ne può più e comincia a dare segnali di insofferenza. 
Come non accorgersene? 
Ci viene in mente una frase che il lealista borbonico, falsamente definito dalla storiografia ufficiale “brigante”, Domenico Fuoco pronunciò nel 1870 prima di essere ucciso: “Ed apprendano i galantuomini che non bisogna abusare dei cenci perché la collera dei miserabili è terribile ed ha qualcosa della folgore e della tempesta”.

Antonio Tortora



mercoledì 12 dicembre 2012

Prossimi appuntamenti con la cultura





---------------------------------------------------------------------------------------




------------------------------------------------------------------




martedì 11 dicembre 2012

Dibattito tra Gigi Di Fiore e Alessandro Barbero



Gigi Di Fiore

FENESTRELLE
LA SFIDA SI SPOSTA A TORINO


Dopo il successo Neoborbonico nella serata barese, martedì 11 dicembre, alle ore 18.00 a Torino, presso la Libreria Torre di Abele, via Pietro Micca 22, un nuovo confronto tra il prof. Alessandro Barbero e, questa volta, Gigi Di Fiore, uno degli storici più documentati (e citati) sui temi al centro del recente dibattito sui soldati napoletani deportati al Nord. 
Un appuntamento da non perdere per iscritti e simpatizzanti della zona, sempre nel segno del rispetto e dell'amore per la nostra memoria storica.








lunedì 10 dicembre 2012

Re Savoia costituzionale? Ma mi faccia il piacere!




Che cos’è la democrazia?

di

Ubaldo Sterlicchio



È una domanda molto interessante, alla quale però occorre dare un’adeguata e coerente risposta.
In base al suo significato etimologico, la democrazia, vocabolo derivante dal greco e composto dai termini dèmos [popolo] e kràtos [forza, governo], è quella forma di gestione della cosa pubblica alla quale partecipano, direttamente o indirettamente, tutti i cittadini.
Le forme di «democrazia diretta» erano possibili nelle città-stato dell’antica Grecia, nell’antica Roma repubblicana, nei comuni medioevali. In età moderna, invece, sono realizzabili solamente forme di «democrazia indiretta», in considerazione dell’elevata consistenza numerica del démos.
Oggi, nell’ordinamento giuridico italiano, l’unico istituto superstite di democrazia diretta è il referendum abrogativo, previsto e disciplinato dall’articolo 75 della Costituzione repubblicana. Esso, quantunque soggetto a molteplici limitazioni formali e sostanziali,(1) consente al popolo di deliberare l’abrogazione, totale o parziale, di una legge o di un atto avente valore di legge. Il 2 giugno 1946, inoltre, il popolo italiano fu chiamato, una tantum [per una volta soltanto], ad esprimersi per scegliere, attraverso il referendum istituzionale, la forma dello Stato fra quella monarchica e quella repubblicana.
È bene puntualizzare, però, che la democrazia non si realizza affatto con l’arido atto formale di depositare, in un’urna, una scheda sulla quale “eventualmente” sia stato segnato un simbolo e/o siano state espresse delle preferenze. Parimenti, la democrazia non si realizza neppure attraverso il conferimento di una «delega in bianco» ad un rappresentante del popolo, impunemente libero, poi, di disattendere gli impegni assunti e di non tener fede alle promesse fatte durante la campagna elettorale o, comunque, di non tutelare gli interessi del démos. Questa è, in realtà, solo una pseudo-democrazia, che si traduce in una presa in giro ai danni dello stesso popolo.
Ciò premesso, vorrei qui proporre una chiave di lettura alquanto differente da quella solita, che tenga conto soprattutto degli aspetti «sostanziali», piuttosto che di quelli puramente «formali».
Io credo che la democrazia, indipendentemente dal tipo di Stato e dalla forma di Governo, consista nel dare concretamente voce al popolo, nell’ascoltarlo, nel recepirne le istanze, nel soddisfarne le esigenze ed i bisogni, nonché nell’assicurargli senza eccezione alcuna una vita dignitosa. La democrazia si realizza mantenendo un sincero rispetto verso il popolo, salvaguardandone gli interessi e non conculcando i suoi diritti, onde garantirgli il maggior benessere possibile.
Non è democratico, quindi, uno Stato che non solo non si ponga e non realizzi tali obiettivi, ma che tiranneggi il popolo, procurandogli gratuite sofferenze, inutili sacrifici od arbitrarie privazioni di varia natura; che gli imponga un fisco gravoso, vessatorio, ingiusto; che reprima le sue legittime aspirazioni o rivendicazioni, attraverso la menzogna, l’inganno e/o la violenza (non esclusa quella morale o psicologica), con l’impiego di mezzi di coazione fisica, fino all’utilizzo delle armi.
Non è, inoltre, democratico un regime che attui una politica militarista e guerrafondaia, al fine di soddisfare le proprie brame egemoniche, di potere, di conquista coloniale o di espansione territoriale e che, pertanto, mandi a morire i figli del popolo in terra straniera, il più delle volte ipocritamente mascherando le guerre di aggressione come interventi armati per garantire la libertà di altri popoli, o come «missioni di pace» ed «umanitarie», ovvero ricorrendo al risibile pretesto di esportare – ahimè! – proprio la democrazia. In questo caso, l’antidemocraticità di un governo che agisca in tal modo sortisce guasti in misura doppia, perché qualsivoglia azione bellica, oltre ad essere condotta in danno di un «altro popolo», comporta sempre degli alti costi, in termini di sofferenze e di vite umane, anche per il «proprio popolo».
Chiarissima è a tale riguardo, in piena concordanza con la testé enunciata nozione di democrazia, la Carta Costituzionale della Repubblica italiana, allorquando, all’articolo 11, sancisce che: «L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali».
Alla luce di quanto detto, è lapalissiano che solo ed unicamente una «guerra difensiva» non contrasta con i princìpi della democrazia; anzi, la difesa militare diventa, in questo caso, un dovere imprescindibile, proprio per tutelare e garantire i diritti dello stesso popolo aggredito.
Non è, infine, conforme ai princìpi della democrazia la «cessione di parti di Sovranità», trattandosi di un atto illecito, illegale, illegittimo ed incostituzionale. Infatti, in virtù dell’articolo 1, comma 2, della già citata Carta Costituzionale, «La Sovranità appartiene al popolo che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione»; pertanto, solo il Popolo è legittimato a delegarla ai suoi rappresentanti regolarmente eletti. Questi ultimi, in virtù del principio giuridico in base al quale: «delegatus non potest delegari», qualora sub-deleghino una qualsivoglia parte della Sovranità popolare, della quale sono democraticamente divenuti depositari e garanti, si rendono responsabili di una grave violazione per «manifesta incostituzionalità». Nessun popolo, infatti, è più sovrano, se non può più decidere della sua Sovranità; la qual cosa costituisce, peraltro, un formidabile preludio di pericolose derive totalitarie.
Ricapitolando: è conforme alla democrazia tutto ciò che viene fatto in favore del popolo, è antidemocratico tutto ciò che può danneggiare il popolo.
Volgiamo ora un breve sguardo diacronico alla storia d’Italia degli ultimi due secoli.
Alla luce di quanto premesso, possiamo, senza tema di smentita, affermare che, nell’Italia pre-unitaria, non furono affatto democratici i promotori delle varie «repubbliche giacobine» filo-francesi, che sorsero nel contesto delle invasioni napoleoniche.(2) Essi, infatti, non solo instaurarono, contro la volontà popolare, delle feroci «dittature oligarchiche», ma, in qualità di «collaborazionisti dello straniero invasore», rivolsero anche le armi contro le popolazioni della Penisola, provocando enormi bagni di sangue in danno dei propri connazionali.(3)
Successivamente, democratici non furono nemmeno i parlamenti ed i governi sedicenti «liberali», piemontesi prima ed italiani dopo, artefici del c.d. risorgimento. In primo luogo, perché essi erano espressione di un’esigua minoranza di borghesi, militari e nobili, che costituiva appena l’1% dell’intera popolazione;(4) si trattò, in realtà, di una «democrazia teorica», falsa ed esistente solo sulla carta, concretandosi, in tal modo, la più classica espressione del c.d. «totalitarismo d’élite».(5) Infatti, nel Regno sardo prima e nel Regno d’Italia poi, la classe dirigente, che si autodefiniva «liberale», si comportò in maniera dispotica, negando alle masse popolari il diritto ad essere rappresentate, ascoltate, tutelate.(6) In secondo luogo, perché i governi italo-piemontesi del 1860 e degli anni successivi, soprattutto con l’invasione e con l’annessione del Regno delle Due Sicilie, inaugurarono una stagione di terrore e di sangue, ponendo in atto una spietata repressione; furono massacrate centinaia di migliaia di figli del popolo duosiciliano e furono rasi al suolo ben 84 paesi del Sud d’Italia. Queste efferatezze sono semplicisticamente passate alla storia con l’ingannevole definizione di «lotta al brigantaggio», mentre innumerevoli furono le fucilazioni, indiscriminate e senza processo, di ex militari borbonici, popolani e contadini meridionali. Ci fu la più totale negazione della democrazia! Ed, a  tale riguardo Antonio Gramsci, molto crudamente, puntualizzò: «Fino all’avvento della Sinistra al potere, lo Stato italiano ha dato il suffragio solo alla classe proprietaria, è stato una dittatura feroce che ha messo a ferro e fuoco l’Italia meridionale e le isole, crocifiggendo, squartando, seppellendo vivi i contadini poveri che gli scrittori salariati tentarono d’infamare col marchio di “briganti”».(7)
Non furono democratici nemmeno i governi dell’Italietta sabauda, nell’armare la mano del generale Fiorenzo Bava Beccaris, nel trascinare il Paese nelle patetiche avventure coloniali e nelle sanguinosissime guerre mondiali, nell’avvalersi ripetutamente degli stati d’assedio, nell’applicare con estrema leggerezza la legge marziale, nell’attuare feroci repressioni contro il popolo.
Non solo durante il periodo risorgimentale, ma anche dopo la stessa unità d’Italia, furono conculcate molte libertà del popolo italiano, quali quella politica all’autodeterminazione ed alla libera scelta dei propri governanti, quella di espressione, quella di associazione, quella di stampa e, soprattutto, quella religiosa dei cattolici.(8)
Riguardo, poi, ai cosiddetti «plebisciti di annessione» degli antichi Stati pre-unitari al Regno di Sardegna, è oramai acclarato e ben documentato che si trattò di consultazioni-farsa, la cui legittimità fu inficiata in toto, non solo per il clima di intimidazioni e di violenze in cui si svolsero, ma anche per i risaputi brogli dai quali furono caratterizzati.(9)
Un pietosissimo velo deve essere steso anche sui referendum abrogativi indetti nell’Italia repubblicana, molti dei quali si sono rivelati inutili, vuoi perché invalidi a causa del mancato raggiungimento dei relativi quorum, vuoi perché i responsi popolari (ad esempio, quello sul finanziamento pubblico ai partiti politici o quello sulla responsabilità civile dei magistrati) sono stati successivamente disattesi attraverso molteplici sotterfugi ben noti a tutti gli italiani e sui quali, in questa sede, reputo superfluo soffermarmi. Una vera e propria presa in giro!
Non credo che possano, infine, ritenersi democratici quei regimi che non amministrino con onestà la cosa pubblica, ignorando quel principio cardine di buon governo, immortalato dal brocardo latino: «obliti privatorum, publica curate [dimentichi dei privati interessi, occupatevi degli affari dello Stato]»; che non assicurino l’efficienza e l’imparzialità della giustizia, tanto quella penale, quanto quella civile e quella amministrativa; ovvero quei governi che, nell’odierno mondo globalizzato, attraverso l’uso di strumenti ancora più subdoli di quelli impiegati in passato, come l’indulgenza legislativa verso l’usura bancaria, non disgiunta da una contestuale iniqua tassazione, soffochino l’economia di un Paese, spingano al fallimento le attività economico-produttive e generino, di conseguenza, elevati livelli di disoccupazione, tanto da indurre al suicidio padri di famiglia e figli del popolo, ormai privati di ogni benché minimo mezzo di sostentamento.
Alla luce della chiave di lettura fin qui utilizzata, ritengo che nel nostro Sud, prima dell’unità d’Italia, in luogo di una banale ed inutile democrazia puramente «formale», esistesse una «democrazia sostanziale», di fatto. Vediamo perché.
Cominciamo col dire che il Regno delle Due Sicilie era uno Stato legittimo e sovrano, che nei 730 anni della propria storia non aveva mai nutrito mire espansionistiche e che, quindi, non aveva mai aggredito o minacciato nessuno. Pertanto, i figli del popolo duosiciliano non erano mai stati mandati a morire in alcuna guerra di conquista. Esso, al contrario, ha solamente subito infami e sanguinose aggressioni!
Lo storico Giacinto de’ Sivo,(10) testimone coevo, ci informa che nella società delle Due Sicilie «…la vita lieta e a buon mercato, piena di ricreazioni e godimenti era; chi non si impicciava di sette era civilmente liberissimo, e poteva far quello che voleva (…); qui tenui le statistiche dei delitti: raro l’omicidio, pochi i poveri, la fame quasi male ignoto; la carità religiosa e privata, comunale e governativa provvedeva; non carta moneta, tutto oro e argento, poche tasse, poche privazioni, con poco si godeva tutto. Facile il lavoro, lieve il prezzo, molte feste popolari, rispetto ai gentiluomini, giustizia, tutela, sicurezza per tutti, ordine sempre. Nella somma delle cose il reame era il meglio felice del mondo; e quanti vi arrivavano stranieri si arricchivano, e i più restavano. La popolazione in quarant’anni crebbe d’un quarto».(11)
Ebbene, in tutta franchezza, confesso che io preferisco senz’altro una siffatta forma di governo, poiché la giudico molto più democratica dei sedicenti «regimi democratici» che l’Italia unita ha avuto durante gli ultimi 151 anni della sua storia; e, meno che meno, gradisco quella attuale!
Ma, poiché qualcuno potrebbe ovviamente obiettare che Giacinto de’ Sivo era un filo-borbonico, reputo opportuno ricordare anche le illuminanti parole di un’autorevole personalità del tutto aliena da simpatie borboniche, ma senz’altro intellettualmente onesta, il liberale Francesco Saverio Nitti.(12) Lo statista, in merito al governo dei re Borbone, affermò che essi miravano «...ad assicurare la maggiore prosperità possibile al popolo (...) non si contentavano se non di contentare il popolo (...) bisognava leggere le istruzioni agli intendenti [i prefetti di oggi, n.d.r.] delle province, ai commissari demaniali, agli agenti del fisco per sentire che la monarchia cercava basarsi sull’amore delle classi popolari. Il re stesso scriveva agli intendenti di ascoltare chiunque del popolo; li ammoniva di non fidarsi delle persone più potenti; li incitava a soddisfare con ogni amore i bisogni delle popolazioni».(13)
Lo stesso Nitti ci fornisce, inoltre, una fulgida attestazione di gratitudine e di attaccamento del popolo meridionale alla Dinastia borbonica, riferendo che: «Le masse popolari delle Due Sicilie, da Ferdinando IV in qua, tutte le volte che han dovuto scegliere tra la monarchia napoletana e la straniera, tra il re e i liberali, sono state sempre per il re: il ’99, il ’20, il ’48, il ’60, le classi popolari sono state per la monarchia borbonica e per il re».(14)
Ed è fin troppo chiaro che le motivazioni a supporto dell’atteggiamento delle «masse popolari delle Due Sicilie», nelle scelte rilevate da Francesco Saverio Nitti, sono racchiuse proprio nel buon sistema sociale, politico ed economico in cui vivevano le popolazioni del Meridione d’Italia; queste condizioni di vita, così ben descritte dal summenzionato Giacinto de’ Sivo, sono indice inequivocabile del «reciproco rispetto» fra governanti e governati, che costituisce un valore fondamentale ed irrinunciabile nelle più autentiche forme di democrazia.
A ragion veduta, quindi, lo storico inglese Bolton King (1860-1937) affermò che «nessuno Stato in Italia poteva vantare istituzioni così progredite come quelle del Regno delle Due Sicilie».(15)
Ma c’è di più. Oltre alle direttive impartite ai responsabili della pubblica Amministrazione del Regno, lo stesso re Ferdinando II usava normalmente tenere «udienza privata» nel Palazzo reale di Napoli per due volte al mese. Chiunque del popolo poteva farne richiesta, venendo quindi inserito in una lista compilata dal c.d. «usciere maggiore», fino a che non si fosse raggiunto il numero massimo di sessanta persone al dì. Nel giorno loro assegnato, i convenuti affluivano nella Reggia e, dopo aver atteso il proprio turno nella gran sala [precisamente il salone che, all’epoca, era arredato con le due grandi tele del pittore romano Vincenzo Camuccini (1771-1844), raffiguranti rispettivamente la morte di Cesare e la morte di Virginia],(16) venivano ricevuti dal Sovrano. Entravano prima le donne e poi gli uomini, mentre i militari accedevano da ultimi, poiché per loro era più facile poter conferire con il re, disponendo di ulteriori opportunità presso gli acquartieramenti e nei campi d’arme.(17)
Non mi risulta che altrettanto abbiano fatto i sedicenti «costituzionali» re Savoia o facciano gli attuali presidenti della Repubblica italiana!

___________________


Note:

1 Le limitazioni formali consistono nella necessità, affinché il referendum possa essere indetto, che la relativa richiesta venga avanzata da 500.000 elettori, oppure da 5 Consigli regionali (art. 75, comma 1, Cost.) e nella necessità, ai fini della validità della consultazione referendaria stessa, che vengano assicurati i seguenti quorum: a) partecipazione della maggioranza degli aventi diritto; b) raggiungimento della maggioranza dei voti validamente espressi (art. 75, comma 4, Cost.). Le limitazioni sostanziali riguardano invece le materie, in quanto sono escluse dal referendum popolare abrogativo le leggi tributarie e di bilancio, di amnistia e di indulto, nonché di autorizzazione a ratificare trattati internazionali (art. 75, comma 2, Cost.).

2 Durante l’invasione francese della Penisola, molti furono i movimenti popolari che spontaneamente insorsero in Italia contro tale aggressione: tra i più noti e rilevanti, rammentiamo i «Viva Maria» in Toscana e le «Pasque Veronesi» nel Veneto. Cfr. Massimo Viglione, “La Vandea italiana”, Effedieffe, Milano, 1996.

3 In particolare, a Napoli, nei giorni 21, 22 e 23 gennaio 1799, mentre l’intera città combatteva e moriva contro le truppe francesi, i giacobini, asserragliatisi in Castel Sant’Elmo, cannoneggiarono vigliaccamente alle spalle il popolo, provocando un bagno di sangue fra la propria gente, come peraltro testimoniò lo stesso generale Jean Antoine Championnet, comandante in capo dell’Armata francese. Dopo tre giorni di feroci combattimenti, i francesi furono padroni della città disseminata di cadaveri: si contarono 2.000 morti tra le fila degli invasori francesi e ben 10.000 fra i napoletani. Cfr. Gustavo Rinaldi, “1799 la Repubblica dei traditori. Il popolo del Regno di Napoli contro gli invasori francesi e i loro lacchè giacobini”, Grimaldi & C., Napoli 1999, pag. 38. Inoltre, durante i 5 mesi della c.d. repubblica (fantoccio) partenopea, furono massacrati dai franco-giacobini oltre 60.000 regnicoli, come ebbe a testimoniare il generale francese Paul Thiébault nelle sue Memorie. Cfr. Paul Thiébault, “Mémoires du Géneral P.Thiébault”, Paris, 1894, vol. II. pagg. 324-325; in Gustavo Rinaldi, “1799...”, op. cit., in nota 6, pagg. 38-39.

4 In virtù della legge elettorale piemontese del 1848, gli aventi diritto al voto (per censo o per nascita) erano appena 418.696 persone su 21.776.953 abitanti, pari all’1,9% dell’intera popolazione. Alle prime elezioni politiche per la formazione del nuovo Parlamento piemontese allargato all’Italia (le consultazioni si svolsero il 27 gennaio 1861, prima che il 17 marzo dello stesso anno fosse proclamato il Regno d’Italia), i votanti furono 239.583, pari al 57% degli aventi diritto e, quindi, circa l’1% della popolazione. Cfr. Gerlando Lentini, “La bugia risorgimentale”, il Cerchio, Rimini, 1999, pagg. 31-32.

5 Angela Pellicciari, “L’altro risorgimento. Una guerra di religione dimenticata”, Ares, Milano, 2011, pag. 87.

6 Camillo Benso conte di Cavour, nel Senato subalpino, al maresciallo Vittorio Della Torre, che gli rinfacciava l’avversione della popolazione ai provvedimenti anticattolici della soppressione degli Ordini religiosi e della confisca dei loro beni, candidamente rispose: «Io, in verità, non mi sarei aspettato di vedere invocata dall’onorevole maresciallo l’opinione di persone, di masse, che non sono e non possono essere legalmente rappresentate». Il sedicente liberale Cavour, presidente del Consiglio del Regno sabaudo – Stato che riteneva di essere moralmente migliore degli altri Stati italiani, perché asseritamente rispettoso della libertà dei propri cittadini – non provò vergogna nell’ammettere che la libertà che aveva in mente valeva per i soli liberali. Cavour pensava ed affermava che l’opinione della stragrande maggioranza della popolazione (vale a dire della massa cattolica), che per semplici motivi di censo non aveva diritto al voto, non contava nulla per definizione. Cfr. Angela Pellicciari, “L’altro risorgimento”, op. cit., pagg. 136-137.

7 Antonio Gramsci, “L’Ordine Nuovo” del 1920, Giulio Einaudi Editore.

8 Angela Pellicciari, “L’altro risorgimento”, op. cit., nonché “Risorgimento da riscrivere. Liberali & massoni contro la Chiesa”, Ares, Milano, 1998.

9 Il plebiscito-farsa che ci interessa più da vicino fu quello svoltosi nell’Italia meridionale il 21 ottobre 1860. Gli stessi ambasciatori di Francia ed Inghilterra (potenze favorevoli all’annessione delle Due Sicilie al Regno piemontese) ne presero le distanze. Sir Henry Elliot, ministro inglese a Napoli, osservò che: «a Napoli vogliono l’autonomia, ma sono costretti a votare l’annessione». Giacinto de’ Sivo testimoniò che: «per tutta la città, garibaldini e camorristi prelevavano i cittadini e li portavano al voto. In ogni seggio vi erano due urne (una per il SI ed una per il NO) e, quando capitava che qualche impudente osava preferire la cartella del NO, provava il bastone ed il coltello». Filippo Curletti, agente segreto di Cavour, nel suo diario ci rivela che: «...pel voto di annessione, un piccolo numero di elettori si presentò a prendervi parte, ma al momento della chiusura delle urne, noi vi gettammo dentro i biglietti, naturalmente in senso piemontese, di quelli che si erano astenuti; non tutti peraltro, ciò si intende; noi ne lasciavamo da parte qualche centinajo o qualche migliajo, secondo la popolazione del collegio. Bisognava bene salvare le apparenze, almeno in faccia all’estero, perché all’interno sapevamo a quale espediente attenerci. (...) Anche prima dell’apertura del voto, carabinieri ed agenti di polizia travestiti ingombravano le sale dello scrutinio e l’ingresso alle medesime. Era sempre fra di loro che sceglievamo il presidente dell’uffizio e gli scrutatori. Noi non eravamo quindi molestati da questo lato. In certi collegi questa introduzione di massa nell’urna dei biglietti degli agenti (noi chiamavamo ciò “completare il voto”) si fece con tale sicurezza e con così poca attenzione, che lo spoglio dello scrutinio diede più votanti che elettori inscritti. Vi si rimediò facilmente con una rettificazione nel processo verbale». Cfr. Filippo Curletti, “La verità sugli uomini e sulle cose del Regno d’Italia. Rivelazioni di J.A. agente segreto del conte Cavour”, a cura di Elena Bianchini Braglia, Terra e Identità, Modena, 2005, pag. 51-52.

10 Giacinto de’ Sivo (1814-1867), scrittore e storico napoletano, fu arrestato più volte dopo la proclamazione del nuovo Stato italiano e pagò anche con l'esilio la sua fedeltà alla verità storica.

11Giacinto de’ Sivo, “Storia delle Due Sicilie, dal 1847 al 1861”, Berisio, Napoli, 1964.

12 Francesco Saverio Nitti (1868-1953), uomo politico ed economista, fu Presidente del Consiglio del Regno d'Italia dal 23 giugno 1919 al 15 giugno 1920.

13 Francesco Saverio Nitti, “Scritti sulla questione meridionale”, Laterza, Bari, 1958, pagg. 27-32; in Gennaro De Crescenzo, “Ferdinando II di Borbone”, il Giglio, Napoli, 2009, pag. 51.

14 Francesco Saverio Nitti, “Nord e Sud”, Calice Editori, Rionero in Vulture (PZ), 1983, pag. 22.

15 Doctor J., “Diritto e carceri nelle Due Sicilie”, in http://www.frontemeridionalista.net, 4 gennaio 2011.

16 Nel 1864, queste tele furono trasferite presso la Reggia di Capodimonte, ove Annibale Sacco riordinò la Pinacoteca dello stesso Palazzo.

17 Mariano D’Ayala, “La vita del re di Napoli Ferdinando II”, Tipografia V. Steffenone, Camandona e C., Torino, 1856, pag. 31.