giovedì 30 maggio 2013

Festival internazionale della Storia - Gorizia





" Questione meridionale e Brigantaggio".

Qualche considerazione sul recente e importante dibattito “Questione meridionale e brigantaggio” svoltosi all’interno del Festival Internazionale della Storia. Premessa: dobbiamo continuare (da Pino Aprile ai neoborbonici, fino all’ultimo dei più piccoli gruppi meridionalisti) il nostro prezioso lavoro di ricerca e divulgazione se ancora non abbiamo mezzi e risorse per organizzare magari un Festival come quello friulano e con sale che, con oltre 600 persone e con la graditissima ed affettuosa eccezione di un gruppo di compatrioti del Napoli Club Udine, poco o nulla sapevano dei temi delle nostre ricerche e delle nostre battaglie. 
Il lavoro fatto finora, allora, è stato importante e notevole ma, evidentemente, ancora non adeguato per dare una base consistente a qualsiasi altro progetto e non solo culturale al Sud come al Nord. In sintesi, quello che colpisce, però, è la sostanziale fragilità delle tesi “avversarie”.  Il  moderatore Gennaro Sangiuliano (vicedirettore napoletano del TG1) ha sistematicamente esibito la consueta tecnica del “sì, però…” contro quello che ha definito “il meridionalismo dell’autoassoluzione” (“non possiamo incolpare gli altri delle nostre colpe… abbiamo avuto presidenti del consiglio e ministri del Sud”).  Poco importa a Sangiuliano se chi è stato chiamato a rappresentare il Sud ha difeso interessi suoi e quelli di un sistema nord-centrico (cfr. l’ultimo saggio del prof. Paolo Macry, “Unità a Mezzogiorno”), poco importa se i presidenti del consiglio meridionali sono stati meno di un quinto di quelli non meridionali, poco importa se tutti noi abbiamo sempre associato la denuncia di massacri e saccheggi a quella delle complicità colpevoli di classi dirigenti di cui sopra e di cui lui stesso è rappresentante autorevole (altro che “autoassoluzioni”…). 
Tutto sommato, sorprendenti gli interventi di Alessandro Barbero: nessuna citazione del suo libro, nessuna risposta alle sollecitazioni in merito alle verità sui prigionieri borbonici (forse per timore di scivolare nella spigolosa questione storiografica-archivistica con le numerose lacune già sottolineate nel confronto di Bari?): qualche vaga considerazione sulla difficoltà di fare storia “serenamente” in Italia (da che pulpito… considerato il tono delle accuse pubblicate nel suo libro), qualche vaga difesa (di fronte agli attacchi di un Pino Aprile più che mai in grande forma, carico e brillante) degli storici ufficiali che avrebbero sempre “parlato di saccheggi e massacri” (ma non nei testi scolastici!), qualche considerazione sulla complessità del fenomeno-brigantaggio che, secondo lui, sarebbe stato anche “endemico” [ma mai nella storia del Sud erano stati necessari oltre 200.000 soldati per debellarlo], era “finanziato da Francesco II” [due domande logiche: con quali soldi, visto che aveva lasciato a Napoli finanche i suoi risparmi? E perché mai -come già sostenne Calà Ulloa- il cuore del brigantaggio sarebbe stata la Basilicata e non l’Abruzzo così vicino anche allo Stato Pontificio?], sarebbe stato il sintomo di una antica “lotta di classe e agraria” [misteriosamente partita il giorno stesso dell’arrivo di Garibaldi a Napoli?]. 
Così Barbero, allora, attribuisce a interpretazioni parziali e attuali la visione di quel brigantaggio come lotta nazionale e borbonica [e i documenti degli archivi militari e civili, del Sud come del Nord dimostrano l’esatto contrario] contrapposta all’adesione di molti meridionali al “progetto unitario” [mentre i documenti dimostrano l’impercettibilità dei dati relativi ai garibaldini meridionali, degli “ascari” della Guardia Nazionale -consueta presenza di tutte le colonizzazioni- o di quegli esuli che rinnegarono la loro antica Patria e la loro gente spesso pentendosene tardivamente]. Del resto la confutazione della tesi della rivolta per i Borbone e per la Patria delle Due Sicilie è il cavallo di battaglia di tutti gli storici ufficiali perché quella rivolta dimostra la debolezza della tesi di fondo costitutiva dell’Italia: si trattò di un’invasione non voluta al Sud e contro la quale si ribellarono soldati e non soldati, “briganti e non briganti” per dieci anni e su tutto il territorio nazionale delle Due Sicilie. 
La stessa tesi, del resto, è stata portata avanti da Lucy Riall, docente di origini irlandesi e di cultura inglese che nel corso della serata ha fatto alcune dichiarazioni che meritano di essere analizzate. “Non dovete fare politica” [premesso che nessuno di noi si è mai candidato da qualche parte negli ultimi 150 anni, a che serve una storia fine a se stessa e senza collegamenti con il presente se, tra l’altro, mai come in questo caso parlando di questioni meridionali, molte scelte dimostrano una continuità drammatica e le conseguenze delle scelte del passato sono ancora vive sulla pelle dei meridionali? E’ come se qualcuno custodisse una grande  biblioteca con diritto esclusivo di consultarla e senza possibilità di accesso per gli estranei: tanto varrebbe bruciarla…]; il Regno delle Due Sicilie “collassò da solo” [una tesi superata dall’accertamento della traumaticità di quello che subì il Sud e mentre lo stesso Croce sosteneva che il Regno era “crollato per un urto traumatico esterno”]; il governo borbonico “restava uno dei più spietati del mondo con le sue condanne a morte” [in contrasto evidente con la verità dei documenti: 113 le condanne a morte nel Piemonte tra il 1851 e il 1855, nessuna nelle Due Sicilie]; “una sola nave non faceva la differenza economica” [mentre non si trattava di una sola nave ma di un’intera flotta, prima in Italia e terza in Europa per tonnellaggio e traffici]; “le industrie del Sud e del Nord erano poca cosa rispetto a quelle del resto del mondo” [ma in questa sede si sta approfondendo il divario tra quelle del Nord e del Sud dell’Italia e conta non poco la potenzialità cancellata delle fabbriche del Sud dopo il 1860 con un numero di addetti e una varietà di produzioni superiori a quelli del Nord]; “scorretto citare le frasi razziste di D’Azeglio e degli altri perché si deve sempre contestualizzare: anche gli inglesi definivano gli irlandesi ‘scimmie verdi’ ma oggi dobbiamo capire perché” [per quanto sconcertante, l’affermazione è anche immotivata: se uno è razzista e razzista, a prescindere da dove e come ha definito “carogne o feccia” qualcuno]; “la storia va letta con serenità, freddezza e distacco” [al di là dell’aplomb britannico, alla Riall ovviamente non deve far male il pensiero che i cittadini di Pontelandolfo morivano “abbrustoliti nelle loro case” o che i piemontesi avessero “il diritto di decapitare i briganti per comodità di trasporto” e nessuno ce lo aveva mai detto…]; chicca finale, poi, l’affermazione secondo la quale in fondo “Garibaldi venne acclamato dal popolo in tutto il Sud” [come se il prof. Eugenio Di Rienzo, suo collega universitario, non avesse scritto il suo monumentale e documentatissimo libro nel quale è evidente il ruolo degli inglesi nell’unificazione o come se non fosse ormai più che dimostrata l’importanza dell’accordo stipulato con la mafia e la camorra che garantirono quelle “acclamazioni” in cambio di un potere ancora drammaticamente attuale]. 
A conti fatti, di fronte alle lacune soprattutto archivistiche degli storici ufficiali spesso rimasti ancorati a teorie e tesi di 50 o 100 anni fa, il Festival della Storia ha dimostrato ancora una volta, oltre alla necessità di continuare il nostro lavoro di ricerca e divulgazione collegando (piaccia o no alla Riall) passato e futuro, la possibilità di vincere (e anche in trasferta) la nostra battaglia culturale.


Gennaro De Crescenzo




Pino Aprile e Gennaro De Crescenzo

Veri e grandi paladini della nostra Identità


domenica 26 maggio 2013

Povera Terra Mia




I PENSIERI AMARI E POETICI 
DELL'ARTISTA E COMPATRIOTA 
FRANCIS ALLENBY 


“Povera terra mia. Povera la mia terra invasa, conquistata, devastata, distrutta e calpestata da una ciurmaglia di gente ignorante, violenta e zotica; una ciurmaglia che non sapeva proferire verbo e che si esprimeva con suoni e grugniti, come gli animali più immondi, come le bestie più disgustose: una ciurmaglia che era arrivata in un paese che era culla di antiche civiltà, di cultura, Madre della lingua che tutti, poi, parlarono. Povera terra mia derubata, espropriata delle sue ricchezze, saccheggiata, spogliata fino all’ultima briciola di grano, fino all’ultimo spicciolo.
Povera terra mia offesa, svergognata, umiliata, violentata, stuprata senza pietà, disonorata e mai più purificata e riscattata.

  



Coloro che ti hanno offesa avrebbero dovuto chiederti perdono in ginocchio, il viso per terra, il capo sparso di polvere; la loro ignominia, ricaduta su loro e sui loro figli, sarebbe dovuta rimanere come una macchia nera ed incancellabile nelle loro anime, riempiendo le loro coscienze di vergogna e di infamia per sempre. Il loro delitto atroce non doveva cancellarsi, non doveva essere dimenticato, come è stato per altri olocausti più recenti.
Ed invece è stato subito accantonato, messo da parte, come cosa da nulla, inesistente.
Povera terra mia, figlia mia e madre  mia: nessuno ha pianto per te, nessuno ha pianto per le tue figlie rese impure, per i tuoi figli ammazzati senza pietà come agnelli al macello: neppure una lacrima per te è stata conservata.




Povera terra mia, da me così amata, di quel grande amore che hai  pur ripagato con sgarbo e disprezzo, io che nel tuo grembo sono nato riesco a leggere il tuo animo esacerbato dal dolore.
Povera la mia terra, costretta in un angolo, depredata di tutto e indotta ad elemosinare per il resto dei suoi giorni, perché il vincitore, il barbaro conquistatore, potesse assaporare fino in fondo la sua meschina vittoria, la sua vigliaccheria, la sua codardia disumana.




Povera terra mia, te lo dico perché non credo che sarai mai più liberata, che mai più tornerai quella di prima, mai più sarai la ridente terra che i greci avevano eletto a loro giardino, il luogo della eterna primavera e dell’abbondanza delle messi, della gioventù, della bellezza.
Ti dedico queste righe, che servono a poco, e che testimoniano la mia rabbia ed il mio dolore.
Se possono valere qualcosa le lacrime dell’ultimo dei tuoi figli, io te le dono così come sono, amare e salate”. 


Francis Allenby

martedì 21 maggio 2013

Un nome alla Pizza Napoletana


Di tanto in tanto torna alla ribalta ciò che era, è e rimarrà napoletana: la Pizza. 
Sin dall’unificazione, nel processo di saccheggio economico, sociale e culturale del conquistato Stato delle Due Sicilie, certamente c’era anche la famosa e squisita Pizza Napoletana che, in un atteggiamento di squallido servilismo culturale, fu addirittura “immolata” ad una Margherita del Savoia oppressore, che mai si sognò né di mangiarla, né, tantomeno, di offrirle il suo nome.
Ora arriva una norma europea tendente a salvaguardare l’identificazione di questo capolavoro della tradizione culinaria napoletana. Una norma che prevede un nome identificatore inequivocabile: cerchiamo di dare tutti insieme un bel segnale, raccogliendo il messaggio che attraverso l’articolo allegato il compatriota Angelo Forgione ci lancia. 


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LA PIZZA NAPOLETANA STG CERCA NOME 

DIAMOLE ANCHE LA SUA VERA IDENTITÀ

di

Angelo Forgione





La “Pizza Napoletana STG” cerca nome. In base alle nuove disposizioni del regolamento comunitario dell’UE 509/2006 sarà obbligatoria una denominazione propria per distinguerla dalle altre pizze senza riconoscimento, cioè quelle “false”.
In poche parole, bisognerà aggiungere un altro termine all’attuale denominazione (esempio: “Pizza Napoletana Verace STG” o “Pizza Napoletana Tradizionale STG” ) e comunicarlo all’Unione Europea. 
Questo per ridurre al minimo il rischio che il consumatore possa essere tratto in inganno trovandosi davanti sia a una “Pizza Napoletana Stg”, che deve rispettare precise regole di produzione, che ad una pizza spacciata per napoletana ma che di napoletano ha solo il nome.
L’Associazione Napoletana Pizzaiuoli, rappresentata dal presidente Sergio Miccù, sta preparando un concorso di idee per fornire alcuni suggerimenti al Governo italiano e ha già iniziato a raccogliere suggerimenti. L’occasione è ghiotta per ridare identità al piatto principe della cucina partenopea e alla stessa storia di Napoli. Già, perché, come scrivo e dimostro nel mio libro Made in Naples (in uscita il 29 maggio), l’origine della pizza napoletana è racchiusa nel Settecento napoletano. La Marinara, infatti, nasce nel 1734 e la Margherita si definisce tra il 1796-1810, così come indicato nel Regolamento UE n. 97/2010 del 4 febbraio 2010, redatto dall’Associazione Verace Pizza Napoletana e dell’Associazione Pizzaiuoli Napoletani. La data del 1889 attribuita a Raffaele Esposito dell’attuale pizzeria Brandi riguarda non l’invenzione della Margherita, ma l’offerta alla regina Margherita di Savoia di una pizza che già esisteva da almeno ottant’anni, così come indicano alcuni trattati di cucina del Regno di Napoli, data in assaggio alla regina d’Italia per il colore dei suoi condimenti che ricordavano la bandiera tricolore.
Pertanto, per ripristinare la verità storica e restituirci identità, sarebbe cosa giusta e importante proporre al presidente Sergio Miccù di marchiare la vera pizza con una denominazione che riconduca al vero periodo storico in cui è stata creata, quello del Regno di Napoli e dell’illuminismo napoletano in cui la coltura del pomodoro e la produzione della mozzarella ebbero un rivoluzionario impulso. Sarebbe ora di dargli, ora che ce n’è la possibilità, nomi veramente identitari come: “Pizza del Regno di Napoli STG”, “Pizza del Re di Napoli STG”, oppure “Pizza Reale di Napoli STG”, o ancora “Pizza borbonica di Napoli STG”.
Inviterei quindi tutti i lettori di questo blog che condividono l’idea a inviare le proposte sopra elencate, o altre proprie, ai seguenti indirizzi:

info@pizzaiuolinapoletani.it  

segreteria@pizzaiuolinapoletani.it  



lunedì 20 maggio 2013

Sui fatti di Auletta del 1861




A proposito di bersaglieri e del loro raduno a Salerno, dopo l’appello da noi rivolto al loro generale (IL MATTINO 13/5/13), la cronaca dei fatti della vicina Auletta (CRONACHE DI SALERNO, 18 e 19/5/13) ci riporta a quel passato con il quale anche e soprattutto chi vanta un’eredità militaresca risorgimentale deve fare necessariamente i conti. 
Così il grande Giacinto de’ Sivo descrive “Le stragi di Auletta” (Storia delle Due Sicilie, vol. II, p. 500). 


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Le stragi di Auletta

di

Giacinto de’ Sivo



Auletta terra di tremila anime nel Salernitano, sopportata male la rivoluzione, sentendo dura la tirannide liberalesca, anelava a scuotere il giogo. Udito ne’ vicini boschi di Petina, Sirignano e Polla una mano di Borboniani li chiamò; i quali muovendo dal bosco Lontrano entrarono il 28 Luglio tra entusiastiche grida, e balli e suoni e canti attorno all'effigie di Francesco e Sofia. I pochi liberali del luogo corsero a Pertosa e Caggiano, invocando armati per reimporre a’ conterranei la libertà. Nessuno si mosse, eccetto un Peppino Oliva capo nazionale di Pertosa, che con alquanti racimolati satelliti ad Auletta s'accostò, ma ebbe a fuggire indietro. Dappoi accorso da Napoli un battaglione, e la legione Ungarese, preso seco Nazionali mobili sull’alba del 30 circuirono il paese; perloché i Borboniani, veggendo non poter vincere tanti, batterono ritirata; e con poche fucilate s'aprirono il passo. 
Gli assalitori invece di dare appresso a questi avversari, entrarono nell'inerme paese per la contrada Piano; e spartiti per le vie quante incontravano persone d'ogni età e stato uccidevano, poscia preso nota de’ più facoltosi, n'investirono le case, e dettevi sacco e fuoco. Prima a’ fratelli sacerdoti Pucciarelli, de’ quali tosto D. Giuseppe trucidarono; l'altro D. Giovanni poté fuggire allora, e poi ebbe due anni di carcere. Saccheggiate parecchie case, strapparono dalle paterne mura l'arciprete Amato, con altri tre sacerdoti, e Francescantonio Carusi, e per fucilarli menaronli avanti la chiesa rovesciata dal tremuoto, e là inginocchiati tennerli molto tra vita e morte; e come un di quei preti settuagenario non reggendo in ginocchio s'alzò, un sergente col fucile gli ruppe il capo. Poi li menarono nel paese a ludibrio, e cavati dalle case altresì i germani Nicola e Giuseppe Carusi, Nicola Amato, Raffaele Lafragola e altri, tutti s'inginocchiarono al largo Campinelli, e con le battiture straziarono; sinché per le lagrime di molti e massime d'una cognata dell'arciprete che col bambino in collo seguendoli al supplizio spettava i sassi. Il capitano fe’ grazia. Tra questi un Vittorio Amorosi liberato appena, correndo a consolare la sua famiglia alla Casina, ripreso per via da altri soldati, è serrato in una chiesa, e là dentro con altri scannato. Così sommariamente i liberatori quarantacinque persone assassinarono; un cento ne ligarono, che con infiniti strazii e conturmelie trascinarono a Salerno, dove il durissimo carcere biennale loro parve una fortuna. Di Auletta arsa sonò alto la fama, anche ne’ giornali governativi, che loro scelleratezze anche esageravano per ispaventare, curando il possesso, non l'infamia.




venerdì 17 maggio 2013

Cento Artisti per Carditello






Evento organizzato dalla Provincia


14.05.13 Caiazzo - Si chiamera' ''CENTO ARTISTI PER CARDITELLO'', l'iniziativa in programma sabato e domenica a Caiazzo (Caserta) organizzata dalla Provincia di Caserta a sostegno del Real Sito Borbonico di Carditello finito all'asta per i debiti dell'ente pubblico che ne aveva la proprieta' (Consorzio di bonifica del Basso Volturno, ndr). L'evento, presentato questa mattina presso la Sala Giunta della Provincia, prevede una mostra con un'asta di beneficenza. ''Quest'iniziativa - ha affermato il presidente dell'Ente di Corso Tireste Domenico Zinzi - costituisce un atto concreto a sostegno della Reggia di Carditello, oltre che uno stimolo forte che va nella direzione di sensibilizzare le istituzioni e l'opinione pubblica sulla situazione che vive il sito borbonico''. La mostra e l'asta avranno luogo sabato 18 maggio (alle ore 18 per la mostra) e domenica 19 (dalle 10 alle 19 per l'asta) al Palazzo Mazziotti di Caiazzo e sono state promosse dalle associazioni i Piatti del Sapere e Nuovo Rinascimento. Nell'occasione verranno esposte 113 opere. Il ricavato delle vendite delle opere messe all'asta sara' utilizzato per permettere di sostenere le spese necessarie per prevedere nuove aperture straordinarie della Reggia di Carditello. Nelle ultime quattro occasioni, il sito borbonico ha accolto oltre 10mila visitatori. 
(Ansa)




mercoledì 15 maggio 2013

Bersaglieri a Salerno



Non si potrebbe sollevare alcuna critica né, tanto meno, puntare il dito su quelle divise se gli storici non gareggiassero ad andare indietro nel tempo, talmente indietro da toccare quel periodo storico in cui i bersaglieri si macchiarono di efferati crimini sulla popolazione inerme. Oggi che la verità storica è ormai alla portata di tutti, anche grazie all’opera di ricerca e diffusione che tutti noi stiamo facendo da decenni, certo non fanno una bella figura. Ed allora la domanda: i bersaglieri della Repubblica Italiana nascono il 2 giugno del 1946 o il 18 giugno del 1836 in Piemonte? Nel primo caso “nulla questio”, nel secondo sicuramente ci devono delle scuse ufficiali, accompagnate da tanta loro vergogna.  

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Movimento Neoborbonico e "Parlamento delle Due Sicilie". 
In occasione del Raduno Nazionale dei Bersaglieri previsto a Salerno dal 13 al 19 maggio; in considerazione di una nuova e sempre più documentata e diffusa storiografia sugli avvenimenti che accompagnarono l’unificazione italiana; in considerazione del ruolo spesso decisivo che ebbero i bersaglieri in molte delle azioni “di guerra” che causarono numerosissime vittime durante la cosiddetta “repressione del brigantaggio” e anche tra i civili; in considerazione delle scuse ufficiali che il rappresentante del Comitato per le Celebrazioni dei 150 anni dell’Italia Unita, on. Giuliano Amato, anche a nome del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, ha portato nell’agosto del 2011 al Comune di Pontelandolfo, la cui popolazione fu vittima di una di quelle drammatiche azioni di guerra operate dai bersaglieri; il Movimento Neoborbonico e il “Parlamento delle Due Sicilie”, associazioni culturali impegnate fin dal 1993 nella ricostruzione della memoria storica, hanno inviato ai responsabili del Comitato per il Raduno dei Bersaglieri alcune PUBBLICAZIONI con documenti relativi ai fatti citati e li hanno invitati a recarsi in VISITA presso una delle località al centro di quei tragici avvenimenti di cui furono protagonisti proprio i bersaglieri (da Pontelandolfo a Casalduni, da Pietrarsa alla vicina AULETTA) inserendo nel vasto e articolatissimo programma ufficiale un momento di ricordo, riflessione e preghiera per chi è caduto, senza colpe, stando dalla parte dei vinti. Anche dopo oltre un secolo e mezzo, le scuse simboliche possono essere un gesto carico di onore e di coraggio.
Ufficio Stampa. 

www.neoborbonici.it 
www.parlamentoduesicilie.it 



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dal MATTINO del 12 maggio 2013








domenica 12 maggio 2013

Celebrazioni a Bitonto


Venerdì 24 maggio 2013, alle ore 18.30, e sabato 25 maggio, dalle ore 18.00, si terranno in Bitonto le bellissime manifestazioni celebrative della celebre Battaglia che, il 25 maggio del 1734, sancì la nascita del Regno delle Due Sicilie. 
Come ormai di consueto, al corteo rievocativo parteciperanno, tra gli altri, anche i Militari dell'Armata di Terra del Regno delle Due Sicilie appartenenti al XIII “Lucania”.
Relatori del convegno di venerdì saranno la prof.ssa Nadia Verdile e il dott. Ubaldo Sterlicchio.
Diramiamo la locandina dell’evento che anticipa il calendario della manifestazione alla quale sono invitati a partecipare tutti i compatrioti.




mercoledì 8 maggio 2013

Stato libero ed indipendente


LIBERI DI DECIDERE

di 

Giuseppe Quartucci



"Lega Nord per l’indipendenza della Padania". 
E’ scritto proprio così. E’ una formazione politica che propaganda dagli anni 90 l’indipendenza di un territorio a cui è stato dato il nome di Padania e che ha fatto della denigrazione del Sud la sua carta vincente. C’è qualcuno che si meraviglia? No, tutto normale, tanto normale che alcuni milioni di elettori meridionali (che ancora credono nelle vecchie contrapposizioni ideologiche di destra e sinistra) hanno contribuito a portarla al governo. Per fare cosa? Leggi. Ma leggi a favore di chi? Anche per migliorare le condizioni del Sud? Volete scherzare? Vedrete che adesso si calmeranno, pensava qualcuno a Sud. Il signor Berlusconi li saprà tenere a bada. Beh, dopo circa venti anni la Padania rimane ancora un obiettivo non raggiunto. Visto che avevamo ragione? Siamo ancora uniti sotto il tricolore. Peccato che in questi anni il Sud è stato continuamente depredato; si, ma per il bene del Paese. Volete qualche esempio? Che ne dite dell’authority per l’alimentazione che in un primo tempo avevano fatto finta di assegnarla a Foggia e poi, alla stretta finale, viene data a Parma, o dei fondi stanziati per la costruzione del ponte sullo stretto, progetto sbandierato per venti anni da Berlusconi per buttare fumo negli occhi del popolo babbione meridionale che ci ha creduto, ma che nell’affannarsi a discutere se tale opera fosse stata utile al Sud hanno pensato bene di dirottare altrove? Dove? Vi dice niente Expo 2015 a Milano? Probabilmente, lì. Per questo non si è discusso neanche un po’. “E’ una questione di immagine per l’Italia e i benefici ricadranno su tutto il Paese” è la parola d’ordine, salvo poi specificare l’intenzione (per fortuna rifiutata dall’Europa) che i materiali di costruzione delle varie opere non potevano richiedersi a ditte distanti più di 350 Km da Milano, come dire facciamo lavorare solo ditte del nord. Ma il mio comune del preappennino dauno che vede le porte delle case chiudersi per non riaprirsi più, che immagine pensate che possa riceverne e che benefici potranno mai ricadervi? O i fondi FAS destinati al Sud e dirottati a Nord, o il progetto sull’alta velocità che taglia completamente mezzo Paese, o l’Alenia di stanza a Napoli che acquista la piccola Aermacchi e, guarda caso, sposta la sede a Nord e tutto questo con i leghisti che ci omaggiano continuamente di considerazioni educate di stampo oxfordiano come Napoletani topi di fogna, Vesuvio lavali col fuoco. Che faccio, continuo? Qualcuno adesso obietterà che se fosse andata la sinistra al governo questo non sarebbe successo. Niet! Anche la sinistra è stata al governo e la linea di condotta è stata identica, solo meno declamata perché non aveva la Lega al suo fianco. E’ stata all’opposizione, ma neanche una parola sulla condizione di squilibrio tra Nord e Sud se non di circostanza. 
Pino Aprile, l’autore di “Terroni” ha il merito di aver portato al grande pubblico quelle verità scomode che hanno segnato l’origine dello Stato Italiano e che la storiografia ufficiale, cane fedele del potere politico ed economico, ha tenuto ben nascoste. Ha saputo spiegare la condizione del nostro Sud, i comportamenti umani segnati da una condizione di acquisita minorità, in maniera scientifica; ha saputo risvegliare l’orgoglio di appartenenza, ha fatto emergere un sentimento di rabbia per ciò che il nostro popolo ha subito in quel risorgimento piombatogli addosso come un tornado lasciando dietro di sé morte, distruzione e miseria, e che continua a subire da 152 anni relegato in una condizione di colonia interna. Da neoborbonico e borbonico ringrazio Pino per tutto questo, ma quando lui dice di credere ad un cambiamento delle persone ed avere finalmente un Paese unito che cresca insieme ed in armonia, allora svesto gli abiti neoborbonici e mi chiedo se è realistico quanto dice, cioè se la convinzione di un padano abituato da decenni a considerarci “terùn, affricani, marocchini, sporchi e puzzolenti (mi sto annusando l’ascella per capire com’è l’odore di un terrone), ladri, mafiosi, incivili e, quando ci va bene, furbi e sfaticati”, tramandando queste convinzioni ai figli e ai figli dei figli, possa mai svanire e considerarci suoi fratelli e soprattutto se noi meridionali dopo aver conosciuto la verità potremo mai essere disposti a dimenticare tutto, a fidarci di chi è stato ed è per noi Caino? Mi chiedo se il Nord è disposto a perdere il suo predominio economico per far progredire il Sud, se è disposto ad una equa distribuzione delle risorse, a non fare asso pigliatutto delle offerte degli italiani per la ricerca sui tumori, di Telethon, di 30 ore per la vita continuando a lasciare gli ospedali del Sud in condizioni da terzo mondo. Mi chiedo se il potere nord massonico è disposto a non avere più politici meridionali asserviti ad esso e che contano come il due di picche lasciando ad essi, come fumo negli occhi, quelle alte cariche dello Stato le cui funzioni non si scostano molto da quella di un vigile urbano. No, Pino, io non credo al tuo speranzoso ottimismo, non credo nella redenzione di chi ha interesse a tenerci costretti in una camicia di forza per continuare a farci vivere di briciole. Con l’attuale crisi sentiamo dire che vanno fatte ripartire le attività produttive, che significa ancora una volta dedicare gli sforzi al solo nord lasciando il sud in agonia. 
Il sangue dei miei progenitori versato a tradimento, la miseria in cui è stato ridotto il mio popolo, la fuga dei giovani dalla propria terra ai quali a volte è lasciata la sola alternativa tra il difendere quello Stato che non ti ha saputo dare un futuro e l’affiliarsi a cosche malavitose, guardie e ladri, l’uno contro l’altro, meridionali entrambi, lo sradicamento delle radici, delle tradizioni, lo smembramento delle famiglie (qualche mese fa mia madre ha perso la sorella emigrata in Canada e l’ultima volta si erano viste trenta anni prima) sono vive nella mia mente e quel dolore lo sento mio. Per questo, penso che il Sud abbia una sola possibilità di salvezza. Tornare ad essere uno Stato libero ed indipendente, rischiando qualcosa, è vero, ma libero dal suo carnefice.   




venerdì 3 maggio 2013

Errare è umano, perseverare è diabolico



di Lucia Gammieri


C’era una volta un grande popolo, un ricco regno esempio indiscusso di Stato Socialista Cattolico, e proprio come nelle favole c’era e c’è ancora la malvagia stirpe prediletta dal diavolo alla quale non era gradito questo paese prospero abitato da un popolo cristiano, fatto d’amore per le cose belle.
L’obiettivo era di distruggere questa terra perfetta baciata dal Signore, ma agli occhi del mondo serviva un nobile pretesto con un infame che si elevasse a ruolo di benefattore, ed ecco la soluzione: l’unità d’Italia con il massone Savoia che se ne fa carico... E fu così che l’invasione fu chiamata liberazione, l’usurpazione fu chiamata fratellanza… La nostra memoria offesa e condannata all’oblio, affinché, non fosse minimamente possibile sospettare o anche soltanto  immaginare la nostra vera storia di popolo facoltoso, unito già da mille anni e con Napoli magnifica capitale, culla di ricchezza, arte, cultura e progresso.
Era una città invidiata dal mondo intero, e per questo motivo che proprio Napoli, in rappresentanza di tutto il sud, è stata da allora moralmente massacrata e materialmente distrutta: sempre indicata come esempio negativo quale territorio di malcostume e d’illegalità, da quando all’alba dell’unità d’Italia i boia benefattori lasciarono a controllare e reprimere, il territorio abitato da gente onesta e perbene, dalla feccia alleatasi per l’occasione e cioè dai capi camorristi, dai traditori e dalle loro prostitute.
Questo netto contrasto tra il prima e il dopo è la chiara spiegazione di come sia stato possibile che,  l’UNICA città italiana a poter vantare i più numerosi e svariati  primati in tema di cultura, progresso e civiltà, tra cui l’istituzione della raccolta differenziata dei rifiuti, fosse, per la legge del contrappasso massonico, condannata a diventare ” La capitale della Monnezza”  utilizzata come la  pattumiera delle scorie tossiche di ogni altra parte del territorio.
In questo momento storico così difficile per il paese, il SUD a testa alta e con orgoglio, deve utilizzare questa memoria rivelata e ritrovata per adoperarsi a difendere la democrazia di questa Nazione: che è stata grande ed è cresciuta ed è stata ITALIA,  grazie all’immenso contributo e sacrificio che il meridione ha dato.
Ieri i Savoia con l’unità d’Italia e la mente che ideò questo complotto fu quella di un ROTHSCHILD, oggi la B.C.E. con l’unità monetaria una macchinosa truffa ( signoraggio bancario) e c’è ancora un ROTHSCHILD a tramare contro il nostro popolo e a cospirare contro la nostra costituzione.
L’incantesimo è finito:  questa famiglia va fermata, questa bestia va  fermata, i suoi servi vanno fermati o loro fermeranno te!!!!





mercoledì 1 maggio 2013

Un Primo maggio napoletano



IL 6 AGOSTO DEL 1863 A PIETRARSA 
L’ESERCITO PIEMONTESE SPARÒ 
SUI LAVORATORI IN SCIOPERO

FU UNA CARNEFICINA 


Tra le tante malefatte di quella sciagurata conquista chiamata “Risorgimento”, alla quale le vittime proprio non riuscivano a sottomettersi, vi è la tragedia consumata tra le mura di quella che era una volta l’orgoglio dell’ingegneria pesante napoletana: l’opificio di Pietrarsa.
Fortemente avversata dalla concorrenza internazionale che vedeva, suo malgrado, sfornare da quella incredibile "fabbrica di ingegni", ogni tipo di macchina a vapore ad alta tecnologia a prezzi imbattibili, all’indomani dell’annessione al Piemonte del Regno delle Due Sicilie l’ordine dei padroni del mondo di allora fu categorico: “Indebolire prima e chiudere poi la fabbrica di Pietrarsa”. 
Nessuna concorrenza poteva compromettere gli interessi dell’Inghilterra ed i suoi alleati-sottomessi, costi quel che costi, e l’ordine fu eseguito anche a costo della vita di quei poveri operai che, ignari degli intrighi internazionali, si fecero ammazzare nel vano tentativo di difendere la loro fabbrica ed il loro salario.
Davanti al Tribunale della storia un giorno saranno chiamati a rispondere anche di questo assurdo crimine, una grave nefandezza consumata ai danni del nostro Popolo, tuttora ignorata nelle ricorrenze, sottaciuta dalle vittime per vergogna e dai carnefici per nascondere un crimine.
In allegato un bellissimo articolo del nostro giovane ed attento compatriota napoletano Angelo Forgione.


Cap. Alessandro Romano 




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Pietrarsa 1863 

Bersaglieri e Carabinieri sparano sui lavoratori



- Angelo Forgione-


1° Maggio, festa dei diritti dei lavoratori conquistati dopo sacrosante battaglie operaie. Una ricorrenza nata negli Stati Uniti nel 1886 dopo i gravi incidenti accaduti nei primi giorni di quel Maggio a Chicago, quando la polizia locale sparò su degli operai manifestanti facendo numerose vittime.
Ma le prime vittime della storia operaia per mano governativa in realtà furono napoletane. Se scaviamo nella storia, già qualche anno prima, nell’estate del 1863, si era registrato un triste episodio a Portici, nel cortile delle officine di Pietrarsa. Una vicenda storica poco conosciuta data la copertura poliziesca della monarchia sabauda, subentrante a quella borbonica, che da poco aveva invaso il Regno delle Due Sicilie dando vita all’Italia piemontese. I documenti del “Fondo Questura” dell’Archivio di Stato di Napoli riportano ciò che accadde quel giorno. Fascio 16, inventario 78: è tutto scritto li.
Il “Real Opificio Borbonico di Pietrarsa”, prima dell’invasione piemontese, era il più grande polo siderurgico della penisola italiana, il più prestigioso coi suoi circa 1000 operai. Voluto da Ferdinando II di Borbone per affrancare il Regno di Napoli dalle dipendenze industriali straniere, contava circa 700 operai già mezzo secolo prima della nascita della Fiat e della Breda. Un gioiello ricalcato in Russia nelle officine di Kronštadt, nei pressi di San Pietroburgo, senza dubbio un vanto tra i tanti primati dello stato napoletano. Gli operai vi lavoravano otto ore al giorno guadagnando abbastanza per sostentare le loro famiglie e, primi in Italia, godevano di una pensione statale con una minima ritenuta sugli stipendi. Con l’annessione al Piemonte, anche la florida realtà industriale napoletana subì le strategie di strozzamento a favore dell’economia settentrionale portate avanti da quel Carlo Bombrini, uomo vicino al Conte di Cavour e Governatore della Banca Nazionale, che presentando a Torino il suo piano economico-finanziario tesio ad alienare tutti i beni dalle Due Sicilie, riferendosi ai meridionali, si lasciò sfuggire la frase «Non dovranno mai essere più in grado di intraprendere». Bombrini era uno dei fondatori dell’Ansaldo di Genova, società alla quale furono indirizzate tutte le commesse fino a quel momento appannaggio di Pietrarsa. Prima del 1860, nata per volontà di Cavour di dar vita ad un’industria siderurgica piemontese che ammortizzasse le spese per le importazioni dalle Due Sicilie e dall’Inghilterra, l’Ansaldo contava la metà degli operai di Pietrarsa che raddoppiarono già nel 1862.
Dopo l’Unità d’Italia l’opificio partenopeo passò alla proprietà di Jacopo Bozza, un uomo con la fama dello sfruttatore. Costui, artificiosamente, prima dilatò l’orario di lavoro abbassando nello stesso tempo gli stipendi, poi tagliò in maniera progressiva il personale mettendo in ginocchio la produzione. Il 23 Giugno 1863, a seguito delle proteste del personale, promise di reimpiegare centinai di operai licenziati tra i 1050 impiegati al 1860. La tensione era palpabile come testimonia il fitto scambio di corrispondenza tra la direzione di Pietrarsa e la Questura. Sui muri dello stabilimento comparve questa scritta: "muovetevi artefici, che questa società di ingannatori e di ladri con la sua astuzia vi porterà alla miseria". Sulle pareti prossime ai bagni furono segnate col carbone queste parole: “Morte a Vittorio Emanuele, il suo Regno è infame, la dinastia Savoja muoja per ora e per sempre”. Gli operai avevano ormai capito da quali cattive mani erano manovrati i loro fili.
La promessa di Bozza fu uno dei tanti bluff che l’impresario nascondeva continuando a rassicurare i lavoratori e rallentando la loro ira elargendo metà della paga concessa dal nuovo Governo, una prima forma di cassa-integrazione sulla quale si è retta la distruzione dell’economia meridionale nel corso degli anni a venire, sino a qui.
Il 31 Luglio 1863 gli operai scendono ad appena 458 mentre a salire è la tensione. Bozza da una parte promette pagamenti che non rispetterà, dall’altra minaccia nuovi licenziamenti che decreterà.
La provocazione supera il limite della pazienza e al primo pomeriggio del 6 Agosto 1863, il Capo Contabile dell’opificio di Pietrarsa, Sig. Zimmermann, chiede alla pubblica sicurezza sei uomini con immediatezza perché gli operai che avevano chiesto un aumento di stipendio incassano invece il licenziamento di altri 60 unità. Poi implora addirittura l’intervento di un Battaglione di truppa regolare dopo che gli operai si sono portati compatti nello spiazzo dell’opificio in atteggiamento minaccioso.
Convergono la Guardia Nazionale, i Bersaglieri e i Carabinieri, forze armate italiane da poco ma piemontesi da sempre, che circondano il nucleo industriale. Al cancello d’ingresso trovano l’opposizione dei lavoratori e calano le baionette. Al segnale di trombe al fuoco, sparano sulla folla, sui tanti feriti e sulle vittime. La copertura del regime poliziesco dell’epoca parlò di sole due vittime, tali Fabbricini e Marino, e sei feriti trasportati all’Ospedale dei Pellegrini. Ma sul foglio 24 del fascio citato è trascritto l’elenco completo dei morti e dei feriti: oltre a Luigi Fabbricini e Aniello Marino, decedono successivamente anche Domenico Del Grosso e Aniello Olivieri. Sono questi i nomi accertati dei primi martiri della storia operaia italiana.
I giornali ufficiali ignorano o minimizzano vergognosamente il fatto a differenza di quelli minori. Su “Il Pensiero” si racconta tutto con dovizia di particolari, rivelando che in realtà le vittime sarebbero nove. “La Campana del Popolo” rivela quanto visto ai “Pellgrini” e parla di palle di fucile, di strage definita inumana. Tra i feriti ne decrive 7 in pericolo di vita e anche un ragazzino di 14 anni colpito, come molti altri, alle spalle, probabilmente in fuga dal fuoco delle baionette.
Nelle carte, dai fogli 31 a 37, si legge anche di un personaggio oggi onorato nella toponomastica di una piazza napoletana, quel Nicola Amore, Questore durante i fatti descritti, che definisce "fatali e irresistibili circostanze" quegli accadimenti. Lo fa in una relazione al Prefetto mentre cerca di corrompere inutilmente il funzionario Antonino Campanile, testimone loquace e scomodo, sottoposto a procedimento disciplinare e poi destituito dopo le sue dichiarazioni ai giornali. Nicola Amore, dopo i misfatti di Pietrarsa, fece carriera diventando Sindaco di Napoli.
Il 13 ottobre vengono licenziati altri 262 operai. Il personale viene ridotto lentamente a circa 100 elementi finché, dopo finti interventi, il governo riduce al lumicino le commesse di Pietrarsa, decretando la fine di un gioiello produttivo d’eccellenza mondiale. Pietrarsa viene declassata prima ad officina di riparazione per poi essere chiusa definitivamente nel 1975. Dal 1989, quella che era stata la più grande fabbrica metalmeccanica italiana, simbolo di produttività fino al 1860, è diventata un museo ferroviario che è straordinario luogo di riflessione sull’Unità d’Italia e sulla cosiddetta “questione meridionale”.
Alla memoria di Luigi Fabbricini, Aniello Marino, Aniello Olivieri e Domenico Del Grosso, napoletani, morti per difendere il proprio lavoro, ogni napoletano dedichi un pensiero oggi e in ogni festa dei lavoratori che verrà. Uomini che non sono più tornati alle loro famiglie per difendere il proprio lavoro, dimenticati da un’Italia che non gli dedica un pensiero, una piazza o un monumento, come accade invece per i loro carnefici.



Stabilimento di Pietrarsa.
Il luogo della strage