Accogliendo i numerosi inviti dei lettori, diciamo la nostra su una vicenda che, in questi ultimi giorni, sta infiammando le colonne del quotidiano napoletano IL MATTINO.
La questione dei “Borboni” (con la “i” giacobina) stranieri o napoletani” ogni tanto riemerge, soprattutto quando i lacci del revisionismo storico strozzano inesorabilmente la retorica risorgimentale fino al punto di fargli perdere il respiro. Ed allora le ultime speranze dei cattedratici di regime si arroccano nel definire i Borbone stranieri e bizzochi.
Quando un individuo può definirsi cittadino della terra dove vive?
Certamente il primo essenziale elemento è la nascita, quindi, la lingua, le tradizioni, le aspirazioni, il carattere, il modo di vestire, il modo di rapportarsi con la società che lo circonda, la fede.
A parte Carlo, il primo dei re dell’era borbonica, tutti i suoi discendenti sono nati e vissuti nel Regno delle Due Sicilie, parlavano perfettamente ed, in alcuni casi, prevalentemente la lingua napoletana, avevano le medesimi aspirazioni e la stessa fede della gente comune e, senza timore di smentita, erano i perfetti rappresentanti delle virtù e dei vizi dei popoli del Regno delle Due Sicilie. Se tutto questo lo si fonde con il profondo amore che essi avevano per “il popolo basso”, è chiaro che stranieri non erano.
“Io sono napolitano; nato tra voi, non ho respirato altra aria, non ho veduto altri paesi, non conosco altro che il suolo natio. Tutte le mie affezioni sono dentro il Regno: i vostri costumi sono i miei costumi: la vostra lingua è la mia lingua; le vostre ambizioni mie ambizioni”. Questo scriveva Francesco II al suo Popolo prima di partire per l’esilio. Altro che straniero.
Facendo un confronto tra Franceso II di Borbone che, in lacrime, lasciava la sua Terra nelle tristissime vesti di primo emigrante della storia del Sud, ed il cosiddetto “re galantuomo”, venuto a liberare il Sud dalla tirannia borbonica, chi appare meno italiano?
Vittorio Emanuele II parlava e scriveva francese, considerava il Sud una colonia ed al Sud aveva scatenato una guerra di conquista senza precedenti: una carneficina dalle dimensioni bibliche. In risposta al primo re d’Italia piemontese, francofono ed usurpatore, il popolo meridionale insorse per oltre 10 anni, inneggiando al Borbone quale proprio legittimo rappresentante e combattendo una disperata guerra di massa per rimetterlo sul trono della propria Nazione.
Delle volte l’ingenuità dei cattedratici filo-risorgimentali è offensiva per le nostre intelligenze: i Savoia erano stranieri, francofoni e massoni che invasero un Regno libero ed indipendente governato dai Borbone, legittimi sovrani, cattolici e proto-socialisti. Non il contrario.
Alessandro Romano
IL MATTINO del 24 marzo 2012
Il Mattino e il suo direttore ancora veicolo di diffusione di luoghi comuni antiborbonici e antinapoletani. Peccato, però, che lo stesso Gigi Di Fiore (autore di diversi e apprezzatissimi saggi storici e firma di punta dello stesso quotidiano) smentisca di fatto quanto in precedenza sostenuto dal direttore: "Certo l'unica dinastia che dopo cinque generazioni di re poteva considerarsi autoctona fu quella dei Borbone" (Il Mattino, 21/3/12), concetto ribadito, di fatto, anche nella sua successiva lettera del 24/3 e in cui, tra complesse interpretazioni storico-diplomatiche, afferma che quella dei Borbone fu una "dinastia di origine spagnola che divenne del Sud italia" con significativi richiami finali alla napoletanità di Ferdinando II ("ma questa è un'altra controstoria") nella ovvia considerazione che, al di là del DNA (pur accertabile e "napoletano" a tutti gli effetti) in queste questioni contano le scelte politiche, culturali ed economiche di un sovrano e, quando si parla di Ferdinando II (e dei Borbone), quelle scelte furono sempre e sistematicamente negli interessi dei Napoletani e del Sud, a differenza di quanto sarebbe accaduto dall'unificazione ad oggi: è di questo che si dovrebbe parlare ed è di questo che dovrebbe parlare il maggiore quotidiano del Sud piuttosto che, come di consueto, "tagliare" lettere di segno contrario alla linea scelta dai direttori o piuttosto che parlare dei neoborbonici e delle loro tesi senza il minimo e democratico intervento degli stessi neoborbonici...
Di seguito gli interventi di Gennaro De Crescenzo, di Angelo Forgione e di Lorenzo Terzi.
Ancora luoghi comuni (superati da ricerche sempre più documentate).
Caro direttore, solo poche parole per suggerire a Lei e ad alcuni lettori qualche lettura che potrebbe evidenziare che, in quanto a situazione preunitaria del Sud, bisognerebbe effettivamente cambiare un po' di storiografia:
1) I dati del famoso censimento del 1861 sull'analfabetismo sono parziali e inattendibili: limitati a poche aree dell'Italia, qualcuno può credere che qualche funzionario sabaudo sia andato in giro per il Sud ad accertarli in pieno caos, a guerra del "brigantaggio" iniziata e con l'esercito borbonico ancora in giro e non ancora tutto deportato nei lager dei Savoia?
Studi aggiornati e documentati dimostrano che i dati del successivo censimento del 1871 misurarono gli alfabetizzati dopo 10 anni di chiusura delle scuole meridionali (le scuole dal 1860 non ottennero più finanziamenti pubblici ma solo comunali e limitati).
2) "due-tre esempi" della storiografia filoborbonica anche i 433 milioni di lire circolanti nelle Due Sicilie (oltre ai famosi 443 delle nostre banche) (cfr. AA.VV. Dalla lira all'euro, 2011)? O i dati relativi al Pil e al reddito medio (CNR e Università di Catanzaro, 2007) "pari o superiori a quelli del resto d'Italia"? O anche quelli relativi all'industrializzazione (1,6 milioni gli operai meridionali, "meno di 1,5 milioni quelli nel Centro-Nord") (cfr, Svimez, 2011). Non è possibile, storiograficamente, ormai, dichiararsi equidistanti e mettere sullo stesso piano un secolo e mezzo di monopolio sostanzialmente filosabaudo e fondato sulla retorica e sulle mistificazioni e qualche anno di una storiografia sempre più documentata e diffusa… Non sarebbe davvero il caso, infine, di interrompere questa dannosa e ormai indifendibile catena di luoghi comuni che offende tutti noi da 151 anni? Cordiali saluti.
Prof. Gennaro De Crescenzo.
Gentile Direttore de IL MATTINO,
in merito alla sua risposta ad Alessandro Tafuri firmatario della lettera "Quei luoghi comuni sull'Unità d'Italia", non voglio snocciolarLe dati e statistiche sulla ormai sempre più crescente onda revisionistica. Ma voglio però chiederLe di non chiamare stranieri i Borbone di Napoli perchè questi erano, appunto, di Napoli, non di Spagna, Francia o Parma. Il capostipite, erede al trono di Spagna, era si Carlo III di Spagna ma prima ancora Carlo VII di Napoli. Nato si in Spagna da madre italiana, fu l'unico a non essere napoletano alla nascita ma quando salì a Madrid fu sancita la divisione delle corone. Poi vi furono Ferdinando nato a Napoli, Francesco nato a Napoli, Ferdinando II nato a Palermo e Francesco II nato a Napoli. Parlavano tutti, anche Carlo III, sia l'italiano che il napoletano, e lo erano a tutti gli effetti. Pertanto è un grave errore che il direttore di un importante quotidiano di Napoli dica una cosa del genere. Sarebbe come dire che la pizza napoletana non è napoletana, oppure che il Mattino di Napoli non è di Napoli. Cordiali saluti.
Angelo Forgione.
Movimento V.A.N.T.O.
Egregio Direttore,
mi complimento innanzitutto con lei per il “lapsus” assai significativo: “il dato che mi allarma è che per il nostro Sud si debba ricorrere sempre al salvatore straniero (i Borbone, i Savoia)”. Allora ammette che i Savoia erano “stranieri”? Bene: facciamo progressi!
Se me lo permette, ribalterei la sua conclusione: è proprio la tesi dell’arretratezza del Regno delle Due Sicilie a fornire ancora, dopo un secolo e mezzo di presunta “redenzione”, un comodo alibi a chi non vuole che si indaghi troppo sui misfatti delle classi dirigenti nazionali e locali degli ultimi centocinquant’anni.
Boutade a parte, a proposito delle “litanie” borboniche lamentate da qualche lettore: è la pura verità che i Borbone puntassero sulle cosiddette “autostrade del mare”. Tra l’altro, erano assolutamente nel giusto. Sbaglia chi fa della facile ironia (tipo: “comodissimo Napoli-Foggia!”). Infatti, proprio poche settimane fa, nel corso di un incontro con alcuni imprenditori pugliesi, questi ultimi lamentavano proprio la scomparsa della navigazione “al piccolo cabotaggio”, assai più conveniente - parole loro! - per il trasporto delle merci. E sa perché non è possibile effettuare tale navigazione? Perché una legge proibisce espressamente questa possibilità. Una nave mercantile che parte da un porto della terraferma italiana non può approdare in un altro porto nazionale, a meno che esso non si trovi su un’isola. Unica eccezione: Genova (?!).
Ma a tale proposito, lascio la parola a uno storico assolutamente non borbonico o neoborbonico, Nicola Ostuni, che ha esaminato la questione delle “strade ferrate” preunitarie: “Naturalmente gran parte del successo economico dell’iniziativa era legato alla possibilità per a ferrovia di accaparrarsi il trasporto che veniva effettuato via mare. Si trattava di un volume di affari cospicuo: il 60% dei prodotti provenienti dalla Capitanata [cioè, guarda caso, proprio da Foggia e dintorni] e la quasi totalità di quelli della Terra di Bari giungevano a Napoli su navi, pagando per l’intero tragitto da Manfredonia o da Barletta a Napoli, 24 grana per ciascun cantaio. Con la stessa cifra un cantaio di merci avrebbe percorso sulla ferrovia, a tariffa massima, 29 delle 90 miglia che separano Napoli da Foggia. Per battere la concorrenza delle navi la ferrovia avrebbe, quindi, dovuto applicare una tariffa pari a meno di un terzo di quella massima, tariffe che non avrebbero coperto neanche le spese di gestione, valutate, correntemente, tra il 40 ed i 50 % della tariffa massima”. Al di là di tutto, si ripete sempre lo stesso errore: “cristallizzare” la situazione al 1860, come se, alla vigilia del crollo del Regno delle Due Sicilie, i Borbone pensassero di aver concluso il ciclo dello sviluppo meridionale. Anzitutto, vi è da dire che, a quell’epoca, già non si poteva più parlare della “Napoli-Portici”. Nel dicembre 1843, infatti, era stata aperta al traffico la Napoli-Cancello-Caserta, completata successivamente con le diramazioni per Capua (1844) e Nola (1846), cui si aggiunse, nel 1856, la tratta Nola-Sarno. Nel 1860, quindi, le ferrovie napoletane contavano 131 km di linee in esercizio e davano mediamente un prodotto annuo per km di 6000 ducati circa. Altri 132 km di linee erano in avanzatissima costruzione o completamento. Inoltre, con decreto 28 aprile 1860 il governo di Francesco II programmò l'inizio a breve scadenza di altre importanti linee: la Avellino-Foggia-Bari-Brindisi-Lecce, la Salerno-Reggio Calabria, la Napoli-Pescara, oltre a tronchi minori ed alle linee siciliane, la Palermo-Catania, la Palermo-Messina, la Palermo-Agrigento, per un complesso di ulteriori presumibili 1400 km ed un investimento complessivo di cinquanta milioni di ducati. Molto probabilmente tutto ciò avrebbe comportato, per l’industria metalmeccanica napoletana, commesse ammontanti ad almeno 16 milioni di ducati.
A proposito, improvvido lettore: i vagoni e le motrici erano ormai fabbricati a Napoli, e non in Francia. Mai sentito parlare di Pietrarsa?
Litanie “scolastiche”. Se si fosse dotati di minore malafede, si guarderebbe quanto meno con sospetto al famigerato dato del 90% di analfabeti che sarebbero stati presenti nel Mezzogiorno al momento dell’unità. Quale validità può avere un rilevamento effettuato non si sa bene come, secondo criteri statistici ignoti e, comunque, di un secolo e mezzo fa, peraltro durante una situazione di grave instabilità dell’amministrazione e dell’ordine pubblico?
Già nel 1767, dopo l’espulsione dei Gesuiti, Ferdinando IV annetté allo Stato i ventinove, floridissimi collegi precedentemente retti dalla Compagni di Gesù. Nel 1768 approvò, inoltre, l’apertura di ventuno scuole “minori” - cioè “scuole secondarie con cattedre di leggere, scrivere e abbaco, di lingua latina e qualche volta di greco o matematica” - e di collegi-convitti in ogni città in cui risiedeva la Regia Udienza, ovvero Aquila, Bari, Capua, Catanzaro, Chieti, Cosenza, Lecce, Matera, Salerno. Dall’aprile al luglio del 1769 il provvedimento fu reso esecutivo. Le “minori” sorsero all’inizio in Paola e in Amantea; subito dopo analoghe istituzioni videro la luce in Acerno, Atri, Barletta, Benevento, Brindisi, Campobasso, Castellammare di Stabia, Latrònico, Massa, Modugno, Molfetta, Monopoli, Monteleone, Nola, Reggio, Sora, Sulmona, Taranto e Tropea.
Alla fine del Settecento, inoltre, nel Regno di Napoli e in Sicilia vennero fondate le “scuole normali”, che conobbero una diffusione immediata e capillare. Gli sforzi governativi ottennero quasi subito risultati assai lusinghieri: fra il 1792 e il 1793 si contano oltre centodieci istituti - sommando quelli presenti nella capitale e nelle province del continente - in cui venne applicato con successo il metodo normale.
Per quanto concerne la Sicilia, dove mirabile fu l’impegno pedagogico di Giovanni Agostino De Cosmi, alla munificenza di privati cittadini fu dovuta l’apertura delle scuole di Augusta e Randazzo; l’abate Santacolomba creò a sue spese un centro d’istruzione nel seminario di S. Lucia del Mela; due scuole vennero attivate dentro il Palazzo reale di Palermo grazie a un finanziamento del viceré Caramanico e altre cinque videro la luce a carico delle rendite della Real Magione in Prizzi, Palazzo Adriano, Chiusa Sclafani, Giuliana e Palermo. I municipi, dal canto loro, si adoperarono con impegno nell’istituire scuole normali, in una nobile gara che coinvolse tanto piccoli comuni - come, fra gli altri, Aci S. Antonio, Gagliano, Tortorici, Viagrande - quanto grossi centri urbani delle dimensioni di Caltagirone, Caltanissetta, Marsala, Noto, Termini.
Sebbene con alterne vicende, insomma, la consapevolezza, “del diritto e del dovere dello Stato di provvedere all’istruzione dei cittadini, non verrà più meno anche quando le vicende politiche ne offuscheranno o ne indeboliranno il valore”: sono parole - scritte nel 1927 - di uno storico che, ancora una volta, non ebbe nulla da spartire con il “borbonismo”, Alfredo Zazo.
Proprio Zazo riporta, alla fine della sua importante monografia sull’istruzione pubblica e privata nel Napoletano dal 1767 al 1860, una dichiarazione illuminante di un “padre della patria”, che dai Borbone era stato perseguitato, ovvero Luigi Settembrini: “Noi altri Napoletani paghiamo la pena di una nostra bugia: abbiamo gridato per tutto il mondo che i Borboni ci avevano imbarbariti e imbestiati e tutto il mondo ci ha creduto bestie, specialmente il Piemonte, che non aveva tutta la colpa quando ci mandò i sillabari e le grammatiche italiane”.
Lorenzo Terzi