domenica 28 aprile 2013

Il crollo delle Due Sicilie





Da un lato la Napoli di De Magistris, dall’altro la Palermo di Crocetta. 
Due rivoluzioni, due disastri.

Delle Due Sicilie che fu se ne sono ricavate una città e una regione. Oggi, di quel che fu il Beatissimo Regno del Borbone restano – come spiccioli tra le dita – Napoli e la regione siciliana. La storia è sempre e soltanto una lunga durata, e va bene, ma il ragionare secondo le grosse linee intorno a quel che fu il viceregnale dominio fa torto all’urgenza. Le Due Sicilie, oggi, sono solo quelle di Palazzo San Giacomo, presso il Maschio Angioino – dove sta il sindaco, Luigi De Magistris – e poi Palazzo d’Orleans, sede del governo di Sicilia, domicilio attuale di Rosario Crocetta, il presidente.
Due, dunque, sono le storie finite a coda di topo nelle Due Sicilie e sono i destini di De Magistris e di Crocetta intrecciati nell’isteria di una rivoluzione da ossessi narcisi e recidivi. De Magistris, dunque, è il sindaco dei crolli. E degli autobus senza nafta e dello sfascio di una città.
Nella solitudine del suo ufficio, De Magistris, guaglione della rivoluzione, è riuscito a guadagnarsi l’unanimità del dissenso. Ha rotto con tutti, infatti. Dall’Istituto Marotta a Roberto Saviano, perfino, tutti sono contro di lui per poi ridursi a strillare: “Ecco, è la camorra!”. Così come ha fatto davanti alla borghesia che gli scende in piazza: “E’ la camorra!”.
Due di due sono naturalmente i diavoli a cui tocca tutto in questa storia a due. E se a Napoli fanno gli imbrogli, a Palermo – si sa – li sbrogliano. Ma con un altro esorcismo: “Ecco, è la mafia”. Qui trionfa Crocetta che è l’esperimento più riuscito di Klaus Davi, il facitore di fenomeni dell’immaginario. E la Sicilia di oggi, allettata più che allertata alla rivoluzione del megafono (il simbolo di questo strano gagà), è diventata il laboratorio dove fa testo l’egopatia di un vanesio e nulla più.
Tinto in testa, pronto per la telecamera, Crocetta incrocia a Montecitorio il Cav. Silvio Berlusconi e – per solidarietà di cosmesi, di certo – si fanno tutto un coccodè reciproco per gorgogliare facezie, motteggi, barzellette e risate al punto che non ci cimentiamo più nella critica bensì nella perfidia: nero sopra nero non tinge, la politica è precipitata nella mascherata ma di Crocetta, si sa, è uno il cui interesse è fare un’intervista o una conferenza stampa. Meglio ancora tutte e due. Ogni giorno. E dire: “E’ la mafia”.
Non si può attribuire ogni male alla camorra, anche se serve al mito che ogni rivoluzionario fa di se stesso, e vedere poi, in ogni scippatore, un affiliato. Anche la camorra risente della crisi e ha introdotto da tempo il lavoro flessibile. Ci sono i co.co.pro. del Sistema, che sbrigano faccende occasionali e specifiche: dallo spaccio all’omicidio. Volta a volta, senza essere organici.
Non si può neppure pensare che la mafia sia una specie di centrale autoreferenziale, anche se serve al mito che ogni rivoluzionario fa di se stesso, se poi Crocetta, nel suo libro, davanti a un’adorante telecamera o a un sorridente Pietro Grasso (che è per lui quasi un vice Klaus Davi, però sorridente) si racconta manco fosse un pallottoliere nella conta di tutti quelli fatti arrestare da lui, tutti nel suo paese, a Gela, quasi ottocentocinquanta malacarne quando Gela – si fa per dire – ottocentocinquanta abitanti non li fa neppure.
Il mito costa assai. Questo è il fatto. Ha un prezzo politico. In Sicilia, giusto per snocciolare i fatti, l’abolizione delle province non ha fatto altro che moltiplicare le nomine di commissari di fiducia; il bilancio regionale è fatto tutto di artifici prossimi a esplodere nel default; tre milioni di euro, poi, sono stati messi da parte per l’autopromozione del fantastico tra i più fantastici dei governatori “rivoluzionari” e la vicenda del Muos, infine, ovvero il “radar” americano da impiantare a Niscemi, s’affumò. Crocetta aveva garantito che non sarebbe stato installato ma sono già arrivati gli avvocati statunitensi accompagnati da quelli italiani, quelli del ministero della Difesa precisamente e pare che di pizzo, di cozzo e di malandrineria la signora America il suo “radar” lo metterà comunque.
Il mito costa assai assai. E come ci arrivarono i due a fare così tanto danno è tema ancora acerbo per via di storia. La calda cronaca è però matura e basti dire che è quell’uccello di malaugurio cui s’è ridotto il Pd a pagare pizzo, pazzo e cappiddazzo. Sia nell’uno come nell’altro caso.
Solo un Pd ridotto alla conta pezzente delle primarie poté consentire il trionfo di questa specie di guardia municipale, ricordate? Comprarono i voti dei bancarellari cinesi per farli votare alle primarie, dopo di che scoppiò lo scandalo, le consultazioni furono annullate e De Magistris, accompagnato dal colonnello Attilio Auricchio, ufficiale dei carabinieri, nominato capo gabinetto (in un certo senso, è il suo Klaus Davi), arrivò in pompa magna per riuscire dove Napoli stessa non è riuscita nel suo stesso sfascio. Certo, il sindaco levò l’immondizia. Ma solo per farla viaggiare all’estero. A caro prezzo.
Tutto ha un costo. Il lungo viceregno postcomunista di Antonio Bassolino a Napoli, che ha blandito imprenditori e intellettuali con feste e farina (forse senza forca), e saltiamo a piè pari lo strascico della Rosa Russo Iervolino, ha lasciato il posto a questo supervigile urbano che pure vorrebbe ma non ha più un euro e non potendo elargire o grandeggiare libera il lungomare dalle auto, porta la Coppa America a Napoli e fa le piste ciclabili, anche se poi succede che lungomare e Villa Comunale diventino talora la Piedigrotta di microdelinquenza serale.
Tutto ha un risvolto e il solo grande risultato economico e sociale riuscito in questi anni a Napoli è il “Napoli”, tirato su dagli inferi da Aurelio De Laurentiis, che è stato capace di tenere persino in fair play finanziario regalando sogni persi dall’epoca di Diego Armando Maradona. Meriterebbe un monumento a piazza Municipio…
Peggio di Napoli sta la povera Sicilia, tutto si paga e solo un Pd ridotto a essere il parco giochi di un dissimulatore (e non è certo Crocetta, né Klaus Davi) può farsi carico di una responsabilità, quella di essere riuscita a fare peggio del peggio già sperimentato nel precedente governo regionale. Senza considerare però un fatto. Molti imbecilli che stanno oltre lo Stretto non lo vogliono notare ma un elemento di continuità tra il peggio che già c’è stato e il peggio in corso, c’è, ed è quel Pd che fu, con Giuseppe Lumia in testa, il più professionista dei professionisti dell’antimafia, regista occulto dell’alleanza con gli “autonomisti” del predecessore di Crocetta.
Peggio di Napoli sta la povera Sicilia e non si può gridare all’emergenza perché, con Crocetta – l’eroe dei talk show più glamour, un gradino sotto Saviano, stanno operando i buoni e non i cattivi. E pure i cattivi, in Sicilia, si adeguano alla furbizia dei buoni. Pagano pegno alla mascherata. Giusto a proseguire lo schema collaudato con il predecessore di Crocetta. Si fecero – lo ricordate?–  le giunte di governo sotto il manto protettivo della magistratura militante. Oggi, in continuità, si ripete la bozza. Il predecessore di Crocetta si mise sotto l’ombrello di Massimo Russo, già pm. L’attuale governatore, invece, dopo aver tentato di prendersi Antonio Ingroia s’è comunque messo sotto il baldacchino di Pietro Grasso, seconda carica dello stato, certo, ma più certissimamente ancora il monumento dell’antimafia al quale Crocetta destina il sottinteso dei sottintesi: “Totus tuus ego sum Rosario, detto Saro!”.
Peggio di Napoli sta la povera Sicilia perché una cosa è ereditare Bassolino, che resta nella storia, un’altra è farsi democristiano, anzi, fare peggio. Continuità dunque. Aggiornata però con il sistema delle “assessorine”. Crocetta che è un professionista rispetto al suo predecessore si circonda solo di personaggi più che di persone, affrontando anche il rischio di cortocircuiti quando la libertà d’azione di questi prende il sopravvento sulla bottega. E’ già successo con Franco Battiato cacciato con un incredibile pretesto – le troie in Parlamento, ricordate? Crocetta, furbo, lo ha prontamente sostituito nominando la propria segretaria personale, Michela Stancheris. “Un’altra assessorina” appunto. Un uccellino ci ha detto che la stessa sorte di Battiato – la stessa di Antonio Zichichi, buttato fuori anche lui – la rischia nientemeno che la giovane figlia di Paolo Borsellino, Lucia, assessore alla Sanità. E comunque questo precipitare di personaggi quando s’arrischiano a diventare persone non procura ansie a Crocetta perché in continente, qualche imbecille, ancora ci crede alla rivoluzione. Ed è quella che s’appalta l’impunità nel fare lo stesso e peggio di ciò che si faceva prima ma con la torva tintura di un’ideologia della legalità – il vittimismo fruttuoso che dà immunità, quello delle auto di scorta offerte in ostensione quali stimmate di santità – da piegare alla strategia della clientela. Le assessorine, infatti, soccorrono la strategia negli assessorati più delicati. Sono quelli “di spesa”. Sanità e Formazione, infatti, si prendono l’ottanta per cento del bilancio. E poco importa che capiti il contrappasso e cioè che alla Formazione, delicatissimo tasto in quella landa di stipendiati, ci sia l’assessorina Nelli Scilabra, anni 27, ancora in attesa di laurearsi perché fuori corso all’università, va da sé…
Altra giovane bella e inesperta. Inesperta come una grillina e dietro la quale Crocetta ha piazzato, va da sé, i suoi uomini di fiducia. A cominciare da Antonio Malafarina, ex vicequestore di Gela, che Crocetta si è portato con sé alla regione e ora lo tiene lì a guardia del feudo come i baroni facevano con i soprastanti. Un altro Klaus Davi?
Peggio di Napoli sta Palermo ma cosa non è successo a Partenope, madre di Due Sicilie?
Tutto accadde in quell’età spaventosa di sovversione e inganno. E fu come se a un certo punto Abbeville si facesse di Parigi un sol boccone. Fu come se la sardina s’inghiottisse un tonno. Cosa impossibile in natura, questa, ma non per la catena alimentare delle città dove – a un certo punto, come fu con Tebe che si ingoiò Sparta – fu che Torino, una città di provincia, si ingollò Napoli, la capitale.
Certo, il Rettifilo a Napoli non ebbe a chiamarsi mai “Corso Re d’Italia”. Fu una pensata dei piemontesi, questa. Non c’è angolo di Napoli, infatti, dove con ossessione da Cln non venga imposta la toponomastica redentrice dei savoiardi. Essendo però quella la denominazione di un titolo, come a voler dire “corso Sindaco di Napoli o corso primo Presidente della Cassazione” (“Funiculì, Funicolà” di Giovanni Artieri lo racconta), la strada dritta e ben larga restò Rettifilo e basta. Una forma di intima fedeltà, questa, al marchio borbonico per tramite d’ironia. Come, al contrario, il dare nomi dal senso opposto: c’è il celebre “vico del Sole”, dove il sole non arriva mai.
La sardina, in ogni modo, si pappò il tonno. E tutto quel bolo – quell’aggrumare di casoni a sei, sette piani tra gli scaracchi liberali – venne masticato a forza di Cavour, camorristi e garibaldini, per diventare la massa fecale che ancora oggi si spalma tra i detriti sociali e culturali di una capitale umiliata da sempre e per sempre.
Ecco perché Abbeville. Fosse successa la stessa cosa sulla Senna, oggi, a Parigi, ci sarebbero un De Magistris e un cardinal Sepe. E la capitale di Coco Chanel e di san Luigi, sarebbe tutto un pittoresco brulicare di protesta, paglietta e delinquenza e la “delicatezza”, a Parigi, oggi l’avrebbe solo in un remoto motto, in uno sguardo o in un passo rivelatore così come a Napoli – sempre oggi – la sua grandezza torna in un dettaglio: in una tavola imbandita, nella grazia di una ballerina del San Carlo, nell’aristocratica alterigia dell’ultimo dei suoi scugnizzi.
Il grande tenore Enrico Caruso, da quando litigò con la sua città, soleva dire: “'O presebbio è bello, ma ’e pasture so’ malamente”. Un tempo il giovane medio borghese napoletano disprezzava Nino D’Angelo e Mario Merola, oggi invece – spiega Francesco Palmieri, autore di un libro sublime, ovvero “Il Libro napoletano dei Morti”, Edizioni Mondadori – “il modello anche esteriore di molti ragazzi vomeresi è l’anthropos neomelodico. La borghesia, che ha dato le parole ai lazzaroni facendo diventare pure l’imprecazione più truce poesia, quadro, canzone, filosofia, ha completamente abdicato e addirittura segue – in gran parte – le tendenze subculturali delle periferie, ne accarezza la violenza che teme, ne assume le tipologie dialettali che hanno sempre meno a che vedere col napoletano idioma di Russo, Di Giacomo, Viviani e anche con il mezzo dialetto eduardiano. Francesco Durante ricorda che la borghesia napoletana, di destra o di sinistra, fino a qualche decennio fa produsse una folla di professionisti e persino di politici che mandavano a mente l’Ape latina e avevano minimo letto un migliaio di libri. Successivamente però l’unica patente di rispettabilità sociale sono stati i guadagni materiali e le conseguenze risultano tragiche”.
Alianello fece dire agli eroi di Gaeta, in quel romanzo complementare al “Gattopardo” che è “L’Alfiere”, che se gli altri combattono e muoiono per conquistare terre o idee di gloria, i napoletani muoiono per “una cosa di cuore: la bellezza”. Il grande Giuseppe Marotta, di cui ricorre il cinquantenario della morte, il quale fu troppo snobbato, disse una cosa fondamentale: “A Napoli un’idea è sempre una persona”. Chi impersona questa idea di capitale, di bellezza possibile? Lo chiedo a Palmieri: “Per me non c’è alcun dubbio: è il principe Carlo di Borbone, legittimo erede di re Francesco II. Che lo si chiami a Napoli, che ne diventi sindaco, governatore plenipotenziario o il monarca morale. Alla borghesia e ai lazzaroni manca un sovrano. Questa, piaccia o no, è la triarticolazione dumeziliana di Napoli”.
Peggio di Napoli sta la povera Sicilia diventata – perdonate se il carico da undici lo riservo alla carne mia – sempre più fogna con la sua Palermo incoronata dall’immondizia per essere a ogni ora un verminaio di cortei, di furie e di abbandoni. Tutto nel frattempo che il suo viceré, la creatura di Klaus Davi, come un destriero tronfio avanza sotto i riflettori dei talk show del continente come un tempo, nei paesi, per la festa di Sant’Isidoro, il ciuccio veniva vestito a festa.
Ed era proprio una bella festa: imbastito al meglio, l’asino – o la giumenta trionfante – se ne stava in mezzo alla strada maestra con il coprisella colorato e i finimenti lavorati, dondolanti e allegri, con le testuzze di turco (le sfere in corda su ogni bardatura) che procuravano orgoglio e allegria all’asino e tanta soddisfazione e onore al villan padrone, l’occulto regista che in questo caso non è, appunto, Klaus Davi, bensì quell’altro: l’astuto Lumia, ovvero, il professionista più professionista dell’antimafia.

P.s.
Praticamente Lumia è un Antonio Ingroia più che riuscito. Un Klaus Davi all’ennesima potenza. E’ uno che barda gli altri di vanità, lui si prende il carico della fruttuosa fatica: il potere. Di impunità e immunità invincibile. Quella dei buoni. Ed è buonissimo assai. Il famoso paradiso abitato dai diavoli delle Due Sicilie lui lo ha ribaltato: quanto meno in Sicilia ne ha fatto un inferno abitato da angeli appaltatori. Di clientele, ops, di obbedienze. Per conto del ciuccio da parata, oggi. Così come del predecessore di Crocetta, ieri.

FOGLIO QUOTIDIANO
di Pietrangelo Buttafuoco
27 aprile 2013

giovedì 25 aprile 2013

Grazie Crozza, ma anche la storia perde i pezzi





di Angelo Forgione


Non può che farmi piacere che Maurizio Crozza metta anch’egli in evidenza il degrado della Reggia di Caserta, tra scarsa manutenzione e vandalismi di ogni genere. Non può che rallegrarmi che sottolinei come l’Italia abbia completamente trascurato la sua ricchezza a differenza dei Paesi civili («Francesi, prendete in gestione la Reggia vanvitelliana, fatela diventare il sito più visitato in Europa come avete fatto con il Louvre, salvatela dal degrado»). Non può che appagarmi che da quando ho parlato di sua maestà il bidet di Caserta (anche prima di trattare il caso Amandola in vari convegni e riunioni), lo strumento è stato riportato da allora dappertutto, persino nei quiz-tv, recependo che nella Reggia si trovino testimonianze di incredibili modernità. Tutto bene, grazie Crozza… però… c’è un però: non può farmi piacere che derida chi quella ricchezza l’ha voluta, e non fu certo Maria Amalia di Sassonia, connotandolo con mimica e parlata da troglodita. Si, la colta Maria Carolina d’Asburgo-Lorena, una volta giunta a Napoli, riempì le stanze di libri, ma il presepe era anche una passione della “preceditrice” Maria Amalia di Sassonia, e aveva una funzione culturale inimmaginabile al giorno d’oggi. Servì da stimolo a una pluralità artistica incredibile: pittori, architetti, ceramisti, sarti, musicisti e scultori, tra cui anche Giuseppe Sanmartino, autore per il Principe di Sansevero del Cristo velato, considerato il più eclettico tra gli scultori napoletani del Settecento e fondatore di una vera e propria scuola di artisti del presepe. Divenne simbolo popolare di ostentazione di nuove opportunità e fu strumento di diffusione culturale delle novità napoletane che nel Settecento stavano rivoluzionando le correnti intellettuali europee, a cominciare dagli scavi di Ercolano e Pompei. Ridurlo a “pazziella” e dire che metà reggia era disseminata di futili presepi è di fatto una gaffe.
Ci tengo a ricordare all’ottimo Crozza che la Reale Accademia Ercolanense che attirò il bibliotecario tedesco Johann Joachim Winckelmann fu un’intuizione di Carlo di Borbone e che il pur poco incline alla lettura Ferdinando IV avviò la sistemazione del Real Museo di Napoli, il primo d’Europa, oggi Museo Archeologico Nazionale, con annesse la Biblioteca degli Studi… nel 1777, un ventennio prima della realizzazione del museo del Louvre voluto da Napoleone.
Grazie Crozza per la sensibilità nei confronti del simbolo dei monumenti del Meridione, ma, cortesemente, basta denigrare i napoletani.
Un’ultima cosa: ancora quasi perfetto il comico genovese nel citare Goethe che scrisse “L’Italia è ancora come la lasciai, ancora polvere sulle strade, ancora truffe al forestiero”. Ma non era il 1788, come erroneamente riferito dai suoi autori, anno in cui concludeva il suo primo viaggio in Italia iniziato nel Settembre 1786. Quella frase fu scritta nel 1790, anno in cui il letterato tedesco provò a ripetere il viaggio che l’aveva entusiasmato, soprattutto al Sud. Quella frase la scrisse a Venezia, da dove decise di fermarsi e fare rientro in patria perché disgustato per l’inasprirsi repentino dell’indisciplina delle persone e del sudiciume dei luoghi. I suoi appunti furono una condanna per il Triveneto, che gli fece passare la voglia di proseguire in direzione delle amate Roma e Napoli.
Regalerò a Crozza il mio libro prossimo all’uscita in libreria, dove leggerà di tutte queste cose e d’altro ancora, in forma di ringraziamento per la sua denuncia… con qualche “errore”. La Reggia muore perché Roma le gira solo un quinto di quanto incassa al botteghino. Qualcosa non torna, in tutti i sensi, anche nella narrazione della storia, che, come i monumenti, è trascurata. Ed entrambe fanno cultura.


http://www.youtube.com/watch?feature=player_embedded&v=XZzsyidLgIg 





mercoledì 17 aprile 2013

Un nuovo imbroglio per derubare il Sud



di Lucio Maria Aiello


C’è un nuovo pericolo per il Sud Italia, del quale nessuno sembra essersi accorto ma che, dopo il risultato delle elezioni regionali in Lombardia, diventa tragicamente reale.
Tutta la campagna elettorale della Lega ed ogni discorso del suo leader e attuale Presidente della Regione Lombardia hanno avuto come tema principale, accanto alla nascita della Macroregione del Nord, il fatto che “almeno il 75 % delle tasse che si pagano al Nord (o almeno nella suddetta macroregione del Nord o almeno in Lombardia) deve restare al Nord”.
Tale dichiarazione programmatica, a furia di essere ripetuta dalla Lega e NON contestata o messa in discussione da alcun politico né nel centrodestra né nel centrosinistra, né al Nord né al Sud, è di fatto stata tacitamente accettata (ricordo il famoso concetto del “silenzio-assenso”) come se fosse una cosa normale. Ed in effetti, e qui sta l’imbroglio, la proposta ad un esame superficiale (troppo superficiale) può apparire del tutto legittima, addirittura “giusta”. Il pensiero infatti va alla piccola impresa padana, nella quale l’imprenditore è padano, i lavoratori sono padani o comunque vivono in Padania per cui in un’ottica federalista può sembrare corretto, o addirittura equo che le tasse pagate da quell’impresa rimangano nel territorio dove l’impresa vive e opera. Per convincere l’opinione pubblica l’On. Maroni, che è molto più abile e intelligente di quanto i suoi avversari ed i suoi alleati pensino, sottolinea che in fondo il 75 % non è tanto e sicuramente è molto meno del 100 % che potrebbe trattenere la Sicilia, legittimamente in virtù della sua condizione di Regione a statuto speciale. In realtà le cose stanno molto diversamente in quanto i grossi contribuenti, come i grossi evasori, non sono le aziendine e le fabrichette, bensì le grandi società, quasi tutte con sede nel Nord ma che producono, e guadagnano, in tutta Italia. Si pensi per cominciare alla FIAT che, limitandoci al settore auto, oltre che in Piemonte produce in Campania, Molise, Basilicata, Lazio (Lazio del Sud ovvero la Terra di lavoro che faceva parte del Regno di Napoli e poi delle due Sicilie ). Il fatturato proviene dai vari siti di produzione ma la sede della Società è a Torino e quindi le tasse la FIAT le paga a Torino.
Ancora più eclatante è la situazione delle Banche che ormai se si eccettuano le Banche di Credito cooperativo ed altre piccole realtà hanno tutte o quasi tutte sede al Nord. A quanto ne so io la Banca più “meridionale” d’Italia è il Monte dei Paschi di Siena e non mi sento di escludere, anche se ovviamente non me lo auguro, che approfittando degli attuali problemi di quella Banca qualcuno della banda Maroni, Tremonti & C. non voglia tentare di farla acquistare da qualche Istituto bancario del Nord. Tutti questi Istituti bancari  hanno sportelli sull’intero territorio nazionale raccogliendo soldi e facendo utili da Bolzano a Siracusa, così come da Imperia a Brindisi. Solo che la sede è quasi sempre al Nord, quindi le tasse le pagano al Nord ed al Nord queste devono restare anche se, bontà sua, l’On. Maroni è disposto ad accontentarsi del 75 %. So che quanto dico può sembrare incredibile, ma vi assicuro che è così. Io stesso sono stato colto dal dubbio e solo dopo aver consultato diversi commercialisti, nessuno comunista e nessuno filoborbonico, che hanno confermato tecnicamente i miei sospetti, mi sono reso conto che la minaccia è reale ed è l’ennesimo progetto di rapina ai danni del Popolo del Sud.  In centocinquanta anni, fatto in parte salvo in parte il periodo che va dalla fine dell’800 alla prima guerra mondiale, siamo stati depredati di tutto compreso il nostro sistema industriale che era all’avanguardia e le nostre banche. L’ultima o una delle ultime ad essere annientata è stata la Cassa di Risparmio di Calabria e di Lucania, una delle Casse di Risparmio più importanti d’Italia, che aveva sede a Cosenza. Prendendo a pretesto il livello di sofferenze, che erano da ridere rispetto ad altre realtà quella che era una grossa banca ormai non esiste più, inglobata nella CARIME (Casse di Risparmio del Meridione) che è sotto il controllo di U.B.I. Banca che fa capo alla Banca popolare di…,indovinate un po’…, ma di Bergamo no? Anzi, chiedo scusa, di Berghem.







martedì 16 aprile 2013

Sostieni i Fratelli Bisognosi



Nel Santuario di Cava de’ Tirreni, che oramai tutti noi conosciamo molto bene dopo il magnifico evento della scorso anno, da qualche anno è stata ripristinata l’antica tradizione della consegna al Santo del Real Collare del Toson D’Oro, con la quale i re Borbone rendevano omaggio a quella comunità  a testimonianza della Fede dei nostri Padri.
In questo Santuario, per tutto l’anno, vengono messe in essere attraverso l’Opera Fratelli Bisognosi una serie di importanti attività di assistenza e carità per i poveri. Un impegno che, per essere portato a termine con successo, ha bisogno del sostegno di molti.
E per questo che, con questo biglietto da visita, ci rivolgiamo alla generosità de Popolo della nostra Rete. 




Con il 5 x 1000 all' Opera Fratelli Bisognosi del Santuario Francescano di Cava de' Tirreni, contribuisci a offrire oltre 150.000 pasti caldi all'anno, centinaia di ingressi alle docce e visite mediche specialistiche gratuite per i più poveri e bisognosi.

Aiutaci ad aiutare!

95092180652

OPERA FRATELLI BISOGNOSI

Arciconfraternita della SS. Concezione e di S. Francesco e S. Antonio O.N.L.U.S.

Piazza S. Francesco, 1 - 84013 Cava de' Tirreni (SA)
www.santuariofrancescano.org

lunedì 15 aprile 2013

Secessione per la Reggia di Caserta




Le offese alla nostra dignità, alla nostra cultura ed alla nostra economia sono iniziate con una devastante invasione militare nel 1860, ideologicamente avallata dal cosiddetto “risorgimento”, e sono continuante nel tempo a tutti i livelli, non ultimo al patrimonio artistico-munumentale. 
Esclusi dai colonizzatori dall’elenco delle cosiddette “città d’arte”, i nostri antichissimi e preziosi centri urbani sono lasciati in totale abbandono affinché scompaiano del tutto, cosicché quello che non hanno fatto gli uomini venuti dal Nord a colpi di cannonate e di saccheggi, lo possano fare il tempo e l’incuria.
La Reggia di Caserta, così come gli Scavi di Pompei e tutto quanto in qualche modo può entrare in concorrenza con le loro “città d’arte”, è stata sistematicamente abbandonata e messa “nella condizione di non produrre ricchezza” nemmeno per se stessa dato che “la ricchezza deve appartenere solo ai vincitori”.
Ed allora è stata avviata una nuova grande battaglia a cura del nostro Movimento.
Chiediamo a tutti voi di attivarsi inviandoci foto non delle bellezze della Reggia, ma delle brutture che incontrerete nella visita.
In allegato il comunicato stampa.




La Reggia di Caserta è uno dei siti più belli del mondo. Voluta dai Borbone come il cuore del Regno delle Due Sicilie, la splendida struttura vanvitelliana versa da anni in condizioni di degrado inaccettabili. 
Patrimonio dell’Umanità per l’Unesco dal 1997, ogni anno la Reggia perde circa cinquantamila visitatori: servizi inadeguati (da quelli igienici ai parcheggi, dai bar alle scale mobili, dai controlli ai trasporti interni), statue e giardini in pessime condizioni, stanze e pavimenti danneggiati, ponteggi e restauri sempre in corso, automobili e venditori ambulanti in ogni angolo.
Tutto questa dimostra che i responsabili locali e nazionali della Reggia (e di molti altri siti della nostra Campania) non sono stati adeguati, non hanno dimostrato la capacità o non hanno avuto la possibilità di gestire e di valorizzare l’immenso patrimonio che il nostro grande passato ci ha regalato.
Per questi motivi il Movimento Neoborbonico e il “Parlamento delle Due Sicilie – Parlamento del Sud” (laboratorio e osservatorio civico-culturale) hanno inviato al Ministro dei Beni Culturali la richiesta di rendere progressivamente autonoma la Reggia dal punto di vista finanziario-amministrativo in considerazione dei finanziamenti (sempre più esigui) concessi dal governo centrale; viste le presenze annuali comunque considerevoli e la potenzialità anche economica (e allo stato attuale del tutto inespressa) della struttura; in considerazione di una gestione che possa coinvolgere in futuro responsabili locali autenticamente radicati e motivati (giovani specializzati e testimonial eccellenti e senza legami politici).
Ufficio Stampa 347 8492762

www.neoborbonici.it 
www.parlamentoduesicilie.it




giovedì 11 aprile 2013

Quattro scippi al Sud (e senza troppo reagire)



di  Lino Patruno


Inutile dire che è giustissima la battaglia che questo giornale sta conducendo per avere l’alta velocità ferroviaria anche al Sud. Anzi sacrosanta. I cowboy conquistarono l’America con gli sbuffanti “cavalli d’acciaio” che andavano verso il West. E anche sùbito dopo l’unità d’Italia furono i binari a fare un Paese altrimenti inesistente. Lo fecero soprattutto al Nord, tanto che 150 anni dopo tra Bari e Napoli ci vogliono ancòra più di quattro ore. Insomma la storia si ripete sempre, ovviamente a danno del Sud.
Astiosa la polemica che da allora si ripropone. I Borbone vantavano la prima ferrovia della penisola, la famosa Napoli-Portici. Nove chilometri, obiettano gli storici. E per fare andare il re da una reggia all’altra. Troppo vanto, aggiungono, visto che nel 1861 i chilometri complessivi erano quasi mille al Nord e meno di cento al Sud. Centocinquant’anni dopo, non è che sia cambiato molto: oltre mille chilometri di alta velocità al Nord, solo la Napoli-Roma al Sud. Tranne che anche stavolta non si voglia dare la colpa al solito Borbone.
A chi lo contesta, Trenitalia risponde che l’alta velocità si fa al Nord perché quella è l’area più sviluppata. Prima il Nord, come dice la Lega. Anche utilizzando le tasse pagate dal Sud. Ma così il divario fra le due Italie aumenta invece di diminuire, cioè solita storia. Senza capire che è proprio la scelta del Nord come locomotiva del Paese (e il Sud vagone appresso) a non far crescere l’Italia da decenni. Decrescita infelice, altro che felice come teorizzano Grillo e i suoi. Sud tenuto lontano dalla geografia e dai governi.
Ma non è tutto. Torino si fa la metropolitana con 300 milioni di euro di fondi destinati al Sud (i famosi Fas per le aree meno sviluppate). Nessuna meraviglia, comunque, se si pensa che su 550mila progetti finanziati dall’Europa sempre per ridurre il sopradetto divario, 405mila vanno al Centro Nord con qualche trucchetto che ne fa apparire povere alcune zone. E non c’entra il Sud che non saprebbe spendere, perché è lo Stato italiano che decide di partecipare alla spesa lì e non altrove. Prima il Nord, capitolo due.
Ma non è ancòra tutto. Si finanzia con 3,3 milioni di euro il porto di Gioia Tauro. Evviva, evviva. Gioia Tauro e Taranto sono i porti di punta dell’Italia “piattaforma logistica del Mediterraneo”: intercettare le merci provenienti dall’Estremo Oriente e distribuirle in Europa. Ma se poi ti metti a fare il ficcanaso, scopri che 3,3 milioni sono le briciole di una spesa di 80 milioni andata appunto quasi tutta a Genova, Savona, Civitavecchia. Prima il Nord, capitolo tre.
Ma non è ancòra il momento di rilassarci. Mozzarella di bufala campana (ma prodotta anche in Lazio e nel Foggiano). Chi non l’ha mai gustata, si è persa una delizia. Però un difetto codesta delizia ce l’ha: è terrona. Cosicché il 21 marzo scorso zitta zitta la “Gazzetta Ufficiale” fa diventare norma una disposizione ministeriale che la condanna a morte. Stabilisce che può essere prodotta solo in opifici specializzati, non dove, mettiamo, si producono anche scamorze. Come se si dovesse avere un capannone per il vino bianco e uno per il vino rosso.
Significa che i produttori devono immediatamente smantellare tutto, pena la perdita della dop (denominazione d’origine protetta). Priva del marchio, chiunque potrà spacciare il suo prodotto come mozzarella di bufala: anche i padani che una bufala finora l’hanno vista solo in foto. Uno scippo architettato ai tempi del leghista Luca Zaia ministro dell’agricoltura. Lo stesso che con i soldi di tutti gli italiani lanciava nel mondo il Prosecco veneto. Lo stesso che faceva pubblicizzare solo prodotti nordici a una società pubblica costituita per diffondere il “Made in Italy” (Italy) agricolo. E lo stesso che quando McDonald’s decise di inventare un panino tricolore, lo fece infarcire solo di formaggi padani condannandolo al flop e al ritiro precipitoso. Prima il Nord, capitolo quattro.
Il problema, come disse una volta il comico Petrolini, non era lo spettatore che disturbava dalla galleria, ma chi non lo buttava giù. Tranne i giornali, non un politico meridionale che abbia reagito ai quattro più recenti capitoli di “Prima il Nord”. Ma quelli del Pd sono indaffarati a dire no alla grande coalizione col Pdl, quelli del Pdl sono indaffarati a dire che senza grande coalizione si va al voto, quelli di Grillo sono indaffarati a dire che se ne devono andare tutti (magari loro compresi).
Il Sud, è vero, ha il vizio di lamentarsi. Dovrebbe smetterla, tranne che per il lamento più opportuno: quello su se stesso, l’incapacità di farsi rispettare e di rispettarsi. Bisognerebbe rovesciare il tavolo. Ma l’esercizio è troppo arduo per un fatalismo abituato a non reagire e per una politica sorda, cieca, muta.

Venerdì 5 Aprile 2013 da la " Gazzetta del Mezzogiorno " 





giovedì 4 aprile 2013

Memorie di quand'ero italiano


EVENTO A 
REGGIO CALABRIA



L’associazione Due Sicilie "Nicola Zitara” ha organizzato per lunedì 8 aprile, alle ore 17.30, presso la Libreria "Culture" in Reggio Calabria, sita in Via Zaleuco n. 9, la presentazione del romanzo storico di Nicola Zitara “MEMORIE DI QUAND'ERO ITALIANO", pubblicato da Città del Sole Edizioni.
L'evento si svolgerà secondo il programma allegato.





mercoledì 3 aprile 2013

La conquista del Sud - Carlo Alianello




Fu una grande novità, il possente ariete editoriale che sconquassò il muro delle menzogne risorgimentali ponendo alla portata di tutti una verità allora nota solo negli ambienti chiusi del revisionismo altolocato. Per molti di noi è stata per lungo tempo la Bibbia indiscussa di un risveglio identitario dilagante, l’arma segreta in mille discussioni, il filo conduttore di una lunga serie di iniziative culturali ed editoriali.
Ora arriva la ristampa su iniziativa della casa editoriale Il Cerchio, una “novità antica” che siamo certi tutti i neofiti del risveglio identitario devono conoscere anche per capire da che basi è partita la nostra opera che, oramai, oggi può contare sul supporto di migliaia di testi scientifici e riepilogativi.

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Dopo alcuni mesi di reiterate richieste, ci siamo!

188 pagine, formato 17x24, copertina a 4 colori con alette, € 18,00.

Fino al 25 aprile 2013
sconto 20% (€ 14,40)
solo per acquisti con pagamento anticipato tramite bonifico bancario!

(ed in più spese postali ridotte, solo € 4,50 da una a cinque copie!)

Il pagamento tramite Bonifico può essere effettuato sul seguente conto corrente:
Banca: UNICREDIT BANCA - via Valturio, Rimini

Cod. IBAN IT71V0200824210000011007831 
intestato a Associazione Culturale Il Cerchio, via dell'Allodola 8, 47923 Rimini

La merce verrà spedita solo al momento dell’avvenuto accredito dell’importo oppure dopo aver ricevuto la conferma di pagamento via email a info@ilcerchio.it o via Fax allo 0541 799173 con annesso numero di CRO. Trascorsi 10 giorni naturali e consecutivi qualora non risultasse ancora avvenuto l’accredito dell’importo dell’ordine, Il Cerchio si riserva il diritto di annullare l’ordine in questione.

E, per capirne di più...

La Conquista del Sud: una

Recensione.


Il libro che ogni italiano dovrebbe leggere, regalare agli amici, consigliare ai colleghi.
La sua prima edizione, nel 1972, ebbe un effetto dirompente: la storia del Risorgimento che si insegnava a scuola era tutta da riscrivere! Se non fu il primo a ricostruire la verità, Carlo Alianello, giornalista, storico e scrittore di origini lucane, ebbe il merito di essere il primo a farla arrivare al grande pubblico, portandola fuori da quei ristretti circoli culturali e accademici dove veniva a malapena sussurrata e subito occultata, ed ebbe il merito, ancora maggiore, di averla raccontata così com'era, senza il filtro delle ideologie tanto in voga presso gli intellettuali dell epoca.
Col suo stile semplice e diretto, romanzando la storia nel senso di renderla viva attraverso i suoi personaggi, Alianello scrisse che l'unificazione d'Italia fu una guerra di conquista; i"padri della patria" erano dei massoni interessati all'oro più che agli ideali; il brigantaggio non fu lotta di classe per il possesso delle terre, ma guerra di difesa contro l'invasore, in nome di Dio e del re Borbone. Ne La conquista dei Sud narrò le luci e le ombre di quel 1860 come avrebbe fatto un testimone oculare, con lo stesso coinvolgimento, gli stessi sentimenti, lo stesso malinconico orgoglio: «Quando s’intese che la truppa piemontese era entrata nel regno, invece d'accomodarsi alla circostanza, i popolani gridarono "Viva Francesco II , posero la borbonica coccarda rossa sul cappello e si armarono di armi rurali per tener testa ai piemontesi.
E questo perché? Per una ragione semplicissima: da noi il popolo minuto aveva sempre considerato i piemontesi non come italiani ma come straniera non gente della nostra terra, ma invasori, saraceni, turchi, austriaci o francesi che fossero. Solo i signori erano italiani, ma per gli interessi loro. Un esercito d'occupazione, insomma, con le sue crudeltà, i suoi saccheggi, le case distrutte, le donne violentate a forza». La lettura di questo libro (giunto alla terza edizione e ormai introvabile in libreria per la chiusura della Casa editrice) ha consentito a migliaia di Meridionali di riscoprire fatti ed avvenimenti accaduti nei propri paesi, i cui protagonisti erano stati i propri antenati, ma dei quali non era rimasta traccia, dei quali loro stessi non avevano memoria. E appunto la memoria era stata cancellata, da oltre un secolo, perché non contrastasse con la vulgata ufficiale che parlava di camicie rosse e di tricolori, di eroi, di liberatori e di oppressi avviliti, di progresso e di miseria.
La conquista del Sud ha riportato alla luce quei fatti, per spiegare come e perché il Meridione era divenuto una "questione" e su chi ricadeva realmente la responsabilità di quelle che venivano imputate come sue "colpe": la povertà, l'immobilismo, la delinquenza mafiosa, la disaffezione allo Stato. Per molti, le sue pagine hanno segnato l'inizio del cammino di recupero della propria identità culturale, di ricerca delle radia, di ricostruzione della memoria storica; hanno chiarito il significato profondo dell'appartenenza ad un popolo, ad una Nazione, al di là e nonostante i mutamenti imposti dal tempo. Un libro veramente indispensabile, per conoscere e riconoscersi.
Grazie a Il Giglio!