domenica 27 gennaio 2013

Pulcinella Maschera Antropologica




Antonio Tortora

Quando si parla di Pulcinella il pensiero corre istintivamente al Vesuvio montagna sacra partenopea, ai due cavalli sfrenati uno d’oro (Apollo) che rappresentava il Sedile di Porta Capuana e uno nero (la luna) che simboleggiava il Sedile di Nilo, all’uovo virgiliano palladio cittadino, ed ancora al sangue contenuto nelle preziose ampolle delle reliquie di San Gennaro, al corno antico simbolo di regalità ritenuto dagli ignoranti mero portafortuna e alle “capuzzelle e morte” che richiamano l’antico culto delle anime del Purgatorio. 
È difficile dire se Pulcinella rappresenti una sintesi efficace di tutti i simboli elencati fatto sta che, osservando la scultura di bronzo realizzata da Lello Esposito e strategicamente posizionata, pochi giorni fa, in vico Fico Purgatorio ad Arco, si ha l’impressione che qualcosa sia tornato al proprio posto e che il popolo del Decumano maggiore o, come oggi si preferisce “dei Tribunali”, abbia potuto finalmente riappropriarsi di un pezzo della sua storia simbolica. 
La figura umana della popolare maschera è ben delineata mentre il cappellone a punta è caratterizzato da linee che si intersecano quasi a formare un puzzle solo apparentemente caotico.
Il bronzeo busto pare emergere dal lastricato basaltico della strada proprio a tre passi dall’ipogeo e dalla “terra santa” della Chiesa di Santa Maria delle anime del Purgatorio ad Arco; ciò non sembra una coincidenza. 



(Foto Mario Zifarelli) 


È innegabile la potenza evocativa dell’immagine e l’energia vitale che fuoriesce dalla terra stessa ovvero da quella pavimentazione calpestata da generazioni e che si squarcia facendone uscire la punta del cappello e finalmente il fiero ed enigmatico volto di Pulcinella; ed è così, mentre fuoriesce all’improvviso dalla terra, che probabilmente Lello Esposito lo ha immaginato con una straordinaria intuizione artistica. 
Un’energia che richiama quel cavallo sfrenato che i greci, all’atto della fondazione di Partenope, adoravano definendolo Ennosigaios ovvero scuotitore di suolo. 
Forse la nuova stele di Pulcinella non provocherà tremori terreni ma di sicuro agirà come detonatore innescando una reazione a catena nelle menti dei più profondi osservatori come dei più superficiali passanti. 
Una sorta di grande punto interrogativo che da millenni fa sfuggire la nostra amata città e i suoi abitanti ad ogni definizione razionale. 
“Pullecenella”, celebre maschera della commedia dell’arte, ha origini antichissime e deriverebbe dal Maccus delle Fabulae Atellanae del IV° secolo a.C. o dal contadino acerrano Puccio d’Aniello che nel ‘600 lasciò la sua cittadina per seguire una compagnia di artisti nomadi o ancora dall’attore comico Silvio Fiorillo sempre nel‘600. 
Da quel momento sono in molti a ripercorrere le trame pulcinellesche del Kikirrus (personaggio delle Fabulae Atellanae dall’aspetto animale) apportandovi modifiche e adeguandolo ai tempi. 
Proveremo ad elencarne qualcuno: l’improvvisatore Andrea Calcese, l’inventore del parigino Polichinelle Michelangelo Fracanzano, gli attori settecenteschi più amati dai napoletani Vincenzo e Filippo Cammarano, Pasquale Altavilla, il più famoso Pulcinella ottocentesco e di tutti i tempi Antonio Petito che scrisse numerosissime commedie; ed ancora Giuseppe De Martino che proseguì l’opera di Petito, Salvatore Muto che morì povero quasi in omaggio alla maschera che impersonò in maniera così magistrale. 
Poi Eduardo De Filippo http://www.youtube.com/watch?v=y8xjYNfgjHU, Massimo Ranieri e Massimo Troisi; ma questa è storia recente.
Jean Noel Schifano, già direttore dell’istituto Grenoble e del quotidiano Le Monde, non a caso ha identificato Pulcinella come una “figura-simbolo partenopea spesso bollata come folklore e invece vera porta sul genius loci della città… essere ermafrodito, Horus del popolo, figura esemplare del barocco esistenziale” coniando così una definizione antropologica forte, impregnata di significato, carica di storia e tuttavia ancora molto vitale. 
È in questa capacità di continuo rinnovamento che risiede la forza del personaggio mascherato, padre di tutte le maschere e punta di diamante dell’anima di una città definita già nella trecentesca Cronaca di Partenope, “inclita”. 
In altre parole lo stesso mito archetipico di Pulcinella si confonde con il mito archetipico di Partenope, di Palepoli, di Neapolis tutti sinonimi di un unico portale generatore di storia e di significati. 
Stessa sorte viene condivisa da un Pulcinella che per poco non è stato ammazzato del tutto da pseudointellettuali che ne hanno sistematicamente sminuito la figura storica ed esoterica relegandolo negli angusti spazi della negatività e del luogo comune, e da una città che come aggiunge ancora efficacemente Schifano: “vogliono neronizzare unitamente alla Campania con la monnezza. Odiano Napoli per la sua trimillenaria intelligenza, per la sua civiltà. Così la sfruttano, come l’hanno sfruttata in questi 150 anni di Unità”. 
Eccole le radici dell’odio: storia e cultura sono i due elementi che fanno la differenza e che rappresentano il valore aggiunto di un popolo facendolo grande al cospetto delle altre Nazioni e parimenti sono gli elementi che suscitano acredine e gelosia da parte di coloro che hanno voluto depredarci di ogni bene, tranne l’anima di cui la maschera partenopea pare raffigurarne il simbolo più verace.
Nel caso di “Pullecenella” la maschera, definibile anche “larva” alla latina ovvero come fantasma usata per incutere paura, riassume su di sé tutti i significati e li trascende mostrandosi nella sua essenza a seconda della qualità dell’osservatore. 
Provocare paura, praticare magie, rappresentare spiriti e forze con una spiccata accentuazione di determinati tratti caratteriali umani e animali e tantissime altre funzioni possono rivelarsi utili per la decifrazione del personaggio ma non possono offrire mai una spiegazione esaustiva. 
Come si potrebbe pensare ad un Pulcinella allegro e vivace tralasciando la componente malinconica e tragica che caratterizza la vita dell’uomo? 
Come si potrebbe pensare ad un Pulcinella che torna da un viaggio lunatico con il suo carico di elisir magici e terapeutici tralasciando la concretezza materiale di una vita costellata di difficoltà? 
Ed infine come ci si potrebbe soffermare solo sulla classica descrizione fisiognomica rispettando la scuola di Johann Kaspar Lavater e di Giambattista della Porta senza riflettere sui molteplici volti delle opere dedicate alla illustre maschera e conservate presso il Museo di Pulcinella http://www.pulcinellamuseo.it/ ad Acerra, l’antica Liburia. 
Qui immagini, libri, stampe, quadri, fotografie, abiti di scena e maschere offrono migliaia di ritratti di un unico personaggio, per di più contestualizzandolo in un Castello Baronale che contiene innumerevoli testimonianze del folklore e della civiltà contadina e che quindi, in un certo senso, ricostruisce l’ambiente in cui l’uomo Pulcinella nasce e vive la sua infanzia. 
Il Centro di cultura “Acerra Nostra” presieduto da Eustachio Paolicelli, il Museo diretto da Francesco Mennitto e l’Associazione amici del Museo di Pulcinella presieduto da Antonio Di Falco stanno facendo molto per implementare le già ricchissime raccolte museali al fine di “porre in essere tutte le iniziative per diffonderne la conoscenza in Italia e nel mondo”. 
Il museo di Acerra è poco conosciuto dai napoletani nonostante conservi un patrimonio di inestimabile valore antropologico. 
Sono molte le opere di Lello Esposito presentate nel Pulcinella Museum e ben inserite lungo un percorso espositivo che si snoda per sale e corridoi che ripercorrono la storia della nostra maschera non solo e non più buffa e burlesca.
Pulcinella è stato il primo meridionale ad emigrare andando a cercarsi una nuova vita nella commedia dell’arte di altri paesi europei, a radicarsi e ad assumere caratteristiche peculiari di quei luoghi; così è accaduto in Francia con Polichinelle, in Inghilterra con Punch, in Germania con Hanswurst, in Olanda con Toneelgek, in Austria con Kasperle, in Russia con Petrushka, in Turchia con Karagoz per citarne i più famosi. 
In tutti i casi ha portato il “tutulus” coppolone tipico della città osco-campana Atella, la testa rasata tipica dei mimi oschi, la mezza maschera nera del lupo, il naso a becco d’uccello, le scarpe grosse ed infine il camicione e gli ampi pantaloni bianchi stretti in vita da una corda, abito caratteristico dei servitori, in giro per il mondo. 
E poco importa se deriva dal maccus lo scemo, dal pappus vecchio avaro, dal dossenus gobbo imbroglione, dal bucco mangione e chiacchierone oppure ancora dal pullus gallinaceus da cui deriva il diminutivo napoletano “pullicino”. 
Ciò che davvero conta è che fino ai nostri giorni è stato rappresentato in tutta Europa negli spettacoli dei burattini e nell’arte comica con temi ripresi dalla grande tradizione teatrale partenopea; che è profondamente innestata nella commedia dell’arte; che conserva una plurisecolare presenza nell’iconografia artistica ed infine, cosa che non va assolutamente trascurata, sopravvive nel carnevale e nelle feste popolari perpetuando la sua funzione simbolica e rituale.
Ne ha fatta di strada con il suo cappellone – pan di zucchero che, paragonato ad un imbuto e messo sottosopra, sembra somigliare alla macina mistica riprodotta sul capitello di una colonna della Basilica medievale di Vézelay, in Francia, dove il frumento viene allegoricamente macinato e trasformato in farina ovvero nel pane della vita dei fedeli. 
Pare che non esistano, stranamente, molte testimonianze pulcinellesche a Napoli e quest’opera dell’artista napoletano colma un vuoto fisico con la scelta di un angolo di strada che rischiava di rimanere abbandonato all’incuria nonostante la moltitudine di turisti che percorrono via Tribunali e nello stesso tempo colma un vuoto psichico richiamando i napoletani ad una profonda riflessione sulle proprie origini.
Una curiosità. 
La storia più antica della maschera e il suo collegamento con le tradizioni osche e atellane trova conferma proprio in una antichissima statua di bronzo che fu recuperata a Roma nel 1727 ed oggi è ancora una scultura di bronzo alta due metri e trenta centimetri, progettata dall’architetto Andrea Florio, forgiata da Lello Esposito e fortemente voluta dal regista teatrale Michele Del Grosso, a fungere da miracoloso ritrovamento. 
Ciò significa che non tutto è perduto, i napoletani non hanno dimenticato Pulcinella né a maggior ragione vogliono ucciderlo; essi vogliono semplicemente vivere proiettati nel futuro ma senza dimenticare le proprie origini.